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Il problem solving come metodo per la risoluzione di problemi e difficoltà anche nella vita quotidiana

Risoluzione di problemi (problem solving), cosa vuol dire comprendere un problema e trovare una soluzione quali sono le fasi da seguire per ottenere i risultati desiderati.

La risoluzione di problemi (problem solving) , insieme al ragionamento e alla decisione, sono temi di cui si occupa la psicologia cognitiva. Il ragionare, il decidere, sono attività complesse, sono abilità di pensiero specifiche dell’essere umano e sono attività cognitive fondamentali.

Definire cosa è un problema

Nel processo di risoluzione di problemi o problem solving, la prima fase da seguire consiste nel definire cosa è un problema. Si presuppone che esistano due stati , ovvero uno obiettivo (lo stato desiderato da raggiungere) e uno stato corrente (quello in cui vi trovate nel presente). Quando lo stato corrente si trasforma in stato obiettivo, allora avete risolto il vostro problema.

Rappresentarsi il problema

L’aspetto più complesso del problem solving consiste nel rappresentarsi la situazione problematica. La comprensione di un problema include i fatti che esso specifica, quello che richiede e i metodi che si possono usare per risolverlo.

Nella soluzione di problemi di routine usiamo conoscenze apprese o tecniche già conosciute, ovvero applichiamo procedure conservate in memoria precedentemente utilizzate.

Quando, invece, si tratta di risolvere problemi non di routine, si utilizzano procedure o strategie non ancora conosciute, ma che possono comunque offrire possibilità di successo.

L’incapacità di risolvere un problema non è necessariamente la conseguenza di mancanza di strategie intelligenti, ma una difficoltà nel rappresentarsi correttamente la circostanza complessa.

E’, quindi, necessario per la risoluzione di problemi, definire correttamente gli obiettivi e la strategie da seguire, descriverli in modo chiaro, specificando tutte le informazioni rilevanti.

problemi

Problemi ben definiti e problemi mal definiti

I problemi mal definiti sono spesso più interessanti e stimolanti, essendo poco chiaro il modo con cui arrivare ad una soluzione. Nel caso di un esame, ad esempio, in cui le domande richiedono delle risposte aperte, si è liberi di considerare tutte le informazioni che si preferisce. Nei problemi mal definiti si è più liberi di mettere in moto le proprie capacità personali e la propria creatività.

I problemi ben definiti e quelli mal definiti, richiedono tipi diversi di abilità cognitive. Entrambi i tipi di problemi richiedono capacità di ragionare e fare inferenze e la capacità di controllare se il ragionamento procede in maniera corretta. La terza abilità, richiesta solo nei problemi mal definiti, è quella del monitoraggio, ovvero la capacità di capire se si sta utilizzando la rappresentazione corretta e i metodi appropriati per risolvere la situazione difficile che si è creata.

Contestualizzazione e inquadramento

Una caratteristica interessante dei problemi ben definiti e dei problemi mal definiti è che il modo in cui la persona affronta il problema è influenzato da come esso viene contestualizzato e inquadrato. L’inquadramento nella risoluzione di problemi illustra come la descrizione di una situazione influenzi il tipo di rappresentazione che la persona stabilisce, che a sua volta influisce sul modo in cui viene risolto il problema.

Ragionamento analogico, illuminazione e creatività

Il ragionamento analogico può aiutare nel problem solving; esso si basa sulla rilevazione di somiglianze tra i problemi attuali e quelli affrontati in precedenza. Questo modo di risolvere i problemi, utilizzando analogie, è tipico di molte situazioni della vita quotidiana.

Un altro interessante metodo per la risoluzione di problemi (o problem solving) è la creatività o l’illuminazione. Avere un’illuminazione vuol dire superare un impasse e comprendere tutta la struttura basilare di un problema. L’esperienza dell’illuminazione è associata ad una modificazione della rappresentazione mentale di una difficoltà, che in un certo momento appare più chiara e comprensibile.

Buon umore e risoluzione di problemi

Uno stato d’animo positivo può influenzare a aiutare la persona a risolvere un problema. L’umore positivo aumenta il numero degli elementi cognitivi disponibili per il solutore e aumenta anche la flessibilità, che è la capacità di associare tra loro anche elementi molto diversi.

Il ruolo della dopamina

L’umore di una persona può influenzare la produzione di dopamina, che a sua volta influenza l’attività di parti del cervello coinvolte nel problem solving. La teoria che spiega questo meccanismo si chiama “teoria dopaminergica dell’umore positivo”, sviluppata da Ashby, Isen e Turken nel 1999.

Secondo questa teoria, il circuito dopaminergico è fondamentale per l’attività della corteccia prefrontale, che ha un ruolo cruciale nella memoria di lavoro e nel problem solving. Anche le emozioni, quindi, influiscono sul nostro modo di ragionare, di affrontare le situazioni e risolvere problemi.

Secondo lo studio degli esperti, quindi, è meglio prendere una decisione e ragionare su un problema quando si è di buon umore. E’ importante non sottovalutare mai le proprie abilità e, anche quando una situazione risulta complessa, bisogna fare affidamento sulla propria creatività e capacità di ingegno. Le soluzioni alcune volte possono essere immediate, altre volte richiedono più tempo e maggiore riflessione, ma è necessario avere fiducia nelle proprie potenzialità e avere un atteggiamento positivo.

problemi

Da cosa viene influenzata la nostra mente?

Significato e importanza delle emozioni

https://it.wikipedia.org/wiki/Problem_solving

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Pubblicato da Silvana Santospirito

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Una risposta a “Il problem solving come metodo per la risoluzione di problemi e difficoltà anche nella vita quotidiana”

[…] portare a termine il piano, verificando il percorso con uno sguardo retrospettivo, in modo da cogliere la logica della strategia usata e verificare se la soluzione è esatta. Per approfondire il tema della risoluzione di problemi, il problem solving, puoi leggere questo articolo Che cos’è il problem solving? […]

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Il Problem Solving

on 30 Giugno 2015 . Postato in Le parole della Psicologia | Letto 51585 volte

problem solving

Il concetto di problem solving implica un ragionamento strutturato e finalizzato alla risoluzione di una situazione complessa, che non può essere ottenuta con l’automatica applicazione di procedure già note né con un approccio intuitivo.

Se il processo di apprendimento comune implica un automatico ricorso a procedure innate o precedentemente acquisite davanti a un problema analogo a un altro già noto, il problem solving è una sequenza di operazioni cognitive al termine della quale si arriva invece ad una soluzione precedentemente sconosciuta. Nello studio dei processi di soluzione dei problemi è opportuno distinguere i problemi come compiti dai problemi propriamente detti. Nei problemi come compiti le prestazioni mentali richieste si rifanno a metodi noti, ossia il soggetto conosce il mezzo per realizzare lo stato finale.

Nei problemi propriamente detti, invece, la soluzione non può essere raggiunta mediante la semplice applicazione di regole note, ma richiede un cambiamento, una rettifica. Il modello in questo caso è il trabocchetto. Quindi, se ci si riferisce ai compiti il metodo della soluzione può essere identificato nella ricerca, mentre per i problemi propriamente detti la via che porta alla soluzione è caratterizzata come scoperta.

Nell’ambito del cognitivismo l’interesse per il problem solving è presente sia come attenzione ai modi con cui il pensiero attinge al patrimonio delle conoscenze già acquisite e spesso strutturate nella forma di schemi corrispondenti ai vari tipi d’esperienza, sia come analisi assai più minuziosa dei singoli passaggi.

Newell e Simon (1972) hanno sviluppato la teoria dello spazio problemico. Quando le persone risolvono un problema si rappresentano mentalmente lo stato iniziale del problema e lo stato finale del problema. Per passare dallo stato iniziale a quello finale, passano attraverso una serie di stati intermedi grazie all’applicazione di operatori mentali. Gli operatori mentali specificano le mosse consentite e quelle non consentite. Nel passaggio da ciascuno stato al successivo sono possibili numerosi percorsi alternativi, ovvero un grande numero di mosse diverse.

Per spostarsi in modo efficiente da uno stato all’altro, cioè per scegliere la mossa che, ad ogni stato, consente di avvicinarsi il più possibile allo stato finale, le persone usano delle strategie o euristiche. Le euristiche sono procedure approssimate, che non specificano ogni azione, ma guidano la ricerca e la sequenza delle azioni da fare. A differenza degli algoritmi, che sono serie di regole esplicite che, seguite in modo sistematico, portano definitivamente alla soluzione del problema, le euristiche non garantiscono di arrivare alla soluzione, ma se hanno successo implicano un risparmio di tempo e fatica.

Uno dei metodi euristici più utilizzati è l’analisi mezzi-fini, che consiste nei passi seguenti:

  • Notare le differenze tra stato attuale e stato finale.
  • Creare una sotto-meta, per ridurre la differenza tra i due stati.
  • Selezionare un operatore che risolverà questa sotto-meta.

L’analisi mezzi-fini è quindi una procedura mediante la quale un problema viene scomposto in tanti sottoproblemi la cui soluzione consente di raggiungere la meta finale. Gli psicologi della Gestalt hanno cercato di dimostrare che il processo di soluzione di un problema (problem solving) era qualcosa di più della “semplice” riproduzione di risposte apprese, e che implicava i processi produttivi di insight e di ristrutturazione.

Il problem solving che si basa esclusivamente su esperienze pregresse può portare all’insuccesso; si ricordino a tale proposito le dimostrazioni in cui i soggetti si fissano sul metodo di soluzione loro insegnato ignorandone altri più semplici, oppure alla fissità funzionale, in cui si dà per scontata la funzione tipica di un oggetto, e come risultato si è incapaci di pensarne un diverso uso.

Per approfondimenti:

  • Psicologia Cognitiva, casa editrice Idelson-Gnocchi
  • wikipedia.org

(A cura della Dottoressa Daniela Scipione)

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Samuele Corona Psicologo

Howard gardner | le 9 intelligenze come strumento per il problem solving.

Howard Gardner è uno psicologo statunitense, professore presso la Harvard University, che ha esposto la sua teoria secondo cui non esiste una sola intelligenza, ma ne esistono tantissime, così tante che sarebbe impossibile catalogarle tutte, per questo motivo egli riuscì a raggruppare le intelligenze in 9 grandi categorie, dando vita alla “ teoria delle intelligenze multiple”.

Il punto di partenza della concezione di Gardner è la convinzione che le teorie classiche dell’intelligenza , basate sul presupposto che esistano fattori misurabili tramite il QI; siano errate .

Secondo Howard Gardner, l’intelligenza si manifesta sotto varie forme e non può essere generalizzata con tanta facilità come veniva fatto nel passato.

  • Gardner, Howard (Autore)

I test sul quoziente intellettivo si basavano su capacità matematiche, spaziali e verbali, senza prendere in considerazione le altre capacità intellettive, e tutto questo non aveva senso secondo lo psicologo statunitense.

Indice dei contenuti

La teoria delle intelligenze multiple

La teoria delle intelligenze multiple comporta che diversi tipi di intelligenza siano presenti in tutti gli esseri umani e che la differenza tra le relative caratteristiche intellettive e prestazioni di ognuno vada ricercata nelle rispettive combinazioni delle 9 intelligenze formulate da Gardner.

Attualmente non vi è alcuna prova scientifica a sostegno della teoria delle intelligenze multiple di Gardner; non è stato possibile isolare parti del cervello che siano selettivamente responsabili di ciascuna specifica intelligenza. 

Al di là della dimostrabilità scientifica, la teoria di Howard Gardner ci consente di analizzare il problema da differenti prospettive quindi può essere considerato un validissimo strumento per il Problem Solving.

Le 9 Intelligenze di Howard Gardner come strumento per il Problem Solving

Con la sua teoria delle intelligenze multiple, egli iniziò a isolare le intelligenze e le raggruppò in 9 categorie principali:

#1. Intelligenza Linguistica

È l’intelligenza legata alla capacità di utilizzare un vocabolario chiaro ed efficace. Chi la possiede solitamente sa variare il suo registro linguistico in base alle necessità ed ha la tendenza a riflettere sul linguaggio.

L’intelligenza linguistica è quella facoltà che riguarda l’espressione attraverso il linguaggio, molto sviluppata ad esempio nei politici, venditori, poeti, scrittori, filosofi e linguisti. Grazie a questa intelligenza siamo in grado di padroneggiare il linguaggio assieme alla mimica facciale e al linguaggio del corpo per rendere efficiente la nostra comunicazione.

Possiamo esprimere concetti molto complessi utilizzando un vocabolario molto ricco, modulare la voce in modo molto raffinato, articolare concetti che risulterebbero complessi per la maggior parte delle persone ed esprimerli in modo semplice e comprensibile. Questa intelligenza permette di comprendere la semantica e la sintassi, di organizzare il testo scritto e orale

Analisi del problema:

In che modo il vocabolario con cui ho descritto ed analizzato gli elementi del mio problema è stato limitante? Come potrebbe essere modificato o espanso in maniera da divenire potenziante?

# 2. Intelligenza Logico-Matematica

Coinvolge sia l’emisfero cerebrale sinistro (simboli matematici) che quello destro (elaborazione dei concetti). È l’intelligenza che riguarda il ragionamento deduttivo, la schematizzazione e le catene logiche.

L’intelligenza matematica riguarda la capacità di riconoscere i simboli e di interpretarli utilizzando entrambi gli emisferi, le capacità logiche e analitiche, capacità deduttive, capacità di astrarre e capacità di schematizzare. Questa intelligenza è tipica dei matematici e dei fisici, degli ingegneri e scienziati.

  • Editore: Feltrinelli
  • Autore: Howard Gardner , L. Sosio
  • Collana: Universale economica. Saggi
  • Formato: Libro in brossura

Grazie a questa particolare capacità, siamo in grado di risolvere problemi complessi, elaborare concetti e risolvere calcoli.

L’intelligenza logico-matematica ci ha permesso di progredire tecnologicamente. È quel processo che usiamo anche quando dobbiamo fare i conti per pagare un caffè, oppure per risolvere un problema di analisi matematica.

In che modo posso schematizzare il problema? Come posso schematizzare le circostanze e gli elementi che vi prendono parte? Cosa accadrebbe se usassi schematizzazioni differenti?

#3. Intelligenza Spaziale

Concerne la capacità di percepire forme e oggetti nello spazio. Chi la possiede ha una sviluppata memoria per i dettagli ambientali e le caratteristiche esteriori delle figure, sa orientarsi in luoghi intricati e riconosce oggetti tridimensionali secondo schemi mentali piuttosto complessi.

L’intelligenza spaziale è la nostra capacità di rappresentare lo spazio nella mente, quindi di immaginare nel dettaglio quello che vediamo all’esterno, la capacità di organizzare gli oggetti nello spazio, riconoscere le forme, orientarci, progettare, ecc.

Questa intelligenza (contemporaneamente all’intelligenza logico-matematica) è coinvolta mentre cerchiamo di risolvere il famoso Cubo di Rubik .

  • La confezione singola misura: 9x12,5x6,5cm; piedistallo incluso
  • 1+ giocatore
  • Età consigliata: 8+
  • Tempo di gioco: illimitato

È una facoltà molto sviluppata nei chirurghi che durante le operazioni devono riconoscere perfettamente le varie parti all’interno del corpo.

Negli architetti che devono immaginare e progettare forme geometriche complesse, i designer alle prese con l’arredamento di un appartamento e gli scultori che riescono ad immaginare una forma e riprodurla fedelmente nei minimi dettagli.

È una facoltà sviluppata anche in coloro che devono orientarsi spesso per lavoro come ad esempio un autista, oppure coloro che riescono a ritrovare la strada dopo essersi addentrati in una foresta.

A nalisi del problema:

Quali sono le relazioni spaziali che sussistono tra gli elementi del problema? In che maniera è possibile modificarle? Come si possono sfruttare al meglio quelle presenti?

#4.  Intelligenza Corporeo-Cinestesica

Coinvolge il cervelletto, i gangli della base, il talamo e vari altri punti del nostro cervello. Chi la possiede ha una padronanza del corpo che gli permette di coordinare bene i movimenti.

L’intelligenza corporeo-cinestetica è quella capacità di osservare i movimenti e riprodurli con il proprio corpo, la capacità di governare le attività motorie con estrema padronanza, ne sono un esempio i ballerini, gli sportivi, i praticanti di arti marziali, anche i musicisti, gli artigiani ed tutti coloro che riescono a riprodurre attività motorie “fini” con eccellente coordinazione.

Il lavoro straordinario che svolgono le aree motorie della corteccia e il cervelletto, permette di compiere movimenti impensabili per una persona normale, come ad esempio viene mostrato durante le olimpiadi.

Analisi del problema:  

Quale movimento è possibile alterare? Qual è possibile sfruttare? Che movimenti possono essere utili produrre o utilizzare?

#5.  Intelligenza Musicale

Normalmente è localizzata nell’emisfero destro del cervello anche se le persone con cultura musicale elaborano la melodia in quello sinistro. È la capacità di riconoscere l’altezza dei suoni e le costruzioni armoniche. Chi ne è dotato solitamente ha uno spiccato talento per l’uso di uno o più strumenti musicali o per la modulazione canora della propria voce.

L’intelligenza musicale comprende tutte quelle capacità che riguardano la musica, leggere la musica, conoscere la grammatica dei vari strumenti musicali, comprendere le leggi dell’armonia, ritmo, saper riconoscere i suoni, creare composizioni e interpretarle, e molto altro.

Questa particolare forma di intelligenza secondo la teoria di Howard Gardner ha molti punti in comune con l’intelligenza logico-matematica, ed è sviluppata ovviamente nei musicisti, compositori, e assidui ascoltatori di musica.

In che modo le musiche, i suoni, i rumori, le voci concorrono alla situazione problematica? Come è possibile intervenire su questi fattori?

#6.  Intelligenza Interpersonale

Coinvolge tutto il cervello, principalmente i lobi prefrontali. Riguarda la capacità di comprendere gli altri, le loro esigenze, le paure, i desideri nascosti, la capacità di creare situazioni sociali favorevoli e di promuovere modelli sociali e personali vantaggiosi.

L’intelligenza interpersonale permette di costruire relazioni con gli altri individui, permette di creare dei punti di collegamento con l’esterno, di comprendere gli stati emotivi degli altri, di interagire con la società, permette anche di manipolare le situazioni a nostro vantaggio proprio perché siamo degli ottimi osservatori.

È una capacità che si integra molto con l’intelligenza linguistica, ed infatti possiamo ritrovarla nei politici, filosofi, venditori ed esperti di marketing, ma soprattutto negli psicologi che sviluppano enormemente l’abilità di comprendere i loro pazienti e le loro necessità.

Quali persone intervengono nella situazione problematica? In che modo si relazionano con te? In che modo queste relazioni ti danneggiano o ti favoriscono? Come è possibile ridurre i danni ed aumentare i benefici?

#7.  Intelligenza Intrapersonale

Riguarda la capacità di comprendere la propria individualità, di saperla inserire nel contesto sociale per ottenere risultati migliori nella vita personale. La capacità di sapersi immedesimare in ruoli e sentimenti diversi dai propri.

L’intelligenza intrapersonale è la capacità di comprendere noi stessi e tutto quello che è al nostro interno. Ci permette di esplorare i nostri stati d’animo e le cause, ci permette di fare auto-analisi, comprendere le nostre necessità, i nostri meccanismi psichici, le nostre abitudini, ci fa comprendere noi stessi e ci rende più consapevoli delle nostre azioni.

Sviluppare questa intelligenza e quindi comprendere quello che c’è al nostro interno, spesso si traduce nello sviluppare anche le capacità interpersonali e quindi di capire cosa c’è all’interno degli altri individui. Quel dialogo interno che conduciamo con noi stessi ci porta ad una continua esplorazione della nostra individualità.

È un tipo di intelligenza molto comune negli attori, che sono in grado di comprendere le caratteristiche interne di altri personaggi ed immedesimarsi in essi, allo stesso modo anche i psicologi possono sfruttare lo stesso meccanismo per immedesimarsi nei pazienti.

In che modo le tue idee, le tue emozioni, i tuoi pensieri si relazionano tra loro e/o con il tuo problema? Come è possibile rendere queste entità o queste relazioni positive?

#8. Intelligenza Naturalistica

L’intelligenza naturalistica è molto spiccata nei biologi, agricoltori, giardinieri, esploratori, cacciatori, antropologi, astronomi, e altri. Consiste nella capacità di riconoscere e catalogare le forme di vita e gli oggetti presenti in natura, come ad esempio le piante, insetti, varie forme di vita vegetale, composti rocciosi, percorsi, fiumi, nuvole, stelle, e molto altro.

Questa intelligenza permette loro di comprendere a fondo la natura e di sviluppare una particolare conoscenza di essa. Molto spesso sono le esperienze e l’ambiente a stimolare questa capacità, ad esempio, se abbiamo dei nonni cresciuti in campagna e che hanno vissuto il periodo della seconda guerra mondiale, conosciamo bene la loro esperienza nel cacciare, e sfruttare la natura a loro vantaggio.

Per loro è sufficiente guardare le nuvole per dirci se pioverà oppure no, riescono a riconoscere i vari tipi di piante e funghi commestibili che noi neanche immaginiamo, proprio perché a causa della guerra e della mancanza di cibo hanno sviluppato tali capacità.

Ci sono elementi naturali che intervengono nella situazione problematica? Il tempo? Le distanze? Elementi atmosferici? Come è possibile massimizzarne i benefici e minimizzarne i danni?

#9. Intelligenza Esistenziale

Rappresenta la capacità di riflettere consapevolmente sui grandi temi dell’esistenza e di ricavare, da sofisticati processi di astrazione, delle categorie concettuali che possano essere universalmente valide.

  • Autore: Howard Gardner , Rodolfo Rini

L’intelligenza esistenziale è estremamente interessante secondo Howard Gardner poiché, a differenza delle altre intelligenze, questa non è legata allo svolgimento di una particolare attività all’esterno, e nemmeno alla cura delle relazioni con gli altri individui. È quell’intelligenza che ci permette di interrogarci sui grandi temi dell’esistenza, sul senso delle cose, sulla funzione di quello che ci circonda, sulla funzione di noi stessi, è quella parte di noi che ci propone delle continue domande.

Da dove veniamo? Chi siamo? Dove stiamo andando? Perché ci stiamo andando? Ed innumerevoli altre domande alle quali l’uomo cerca di rispondere millenni.

Una sorta di intelligenza superiore alle altre che ci stimola a porci delle domande, ad andare oltre l’illusione della materia, oltre le solite azioni quotidiane che ci imprigionano dentro le nostre “funzioni” nella società. Una caratteristica tipica dei filosofi, che da sempre cercano di guardare al di là delle cose.

Se non avessimo avuto questo tipo di intelligenza, non avremmo avuto nessun tipo di curiosità, non ci saremmo posti delle domande, non ci saremmo sforzati di rispondere a queste domande, e non avremmo trovato nessuna risposta, in parole povere non saremmo arrivati fino a questo punto.

In che modo il problema può essere incluso in un contesto più ampio?

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Bibliografia:

  • “Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza” di Howard Gardner 
  • “Cervello. Viaggio nei segreti della mente” di Morgan Keirstead
  • “ Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento” di Howard Gardner

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Samuele Corona

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considera il problem solving 1 della teoria

Home › Psicologia Cognitiva › Problem Solving: Significato, Fasi, Creatività ed Esercizi

Problem Solving: Significato, Fasi, Creatività ed Esercizi

Vitania caramia.

  • 29 Aprile, 2021
  • Psicologia Cognitiva

Problem solving , ogni problema necessita di una soluzione. Le funzioni cognitive di ragionamento, problem solving e decision making rientrano nelle capacità generali relative al pensiero umano e alla metacognizione . In psicologia, il pensiero viene definito come l’attività mentale di elaborazione di informazioni, riflessione e sviluppo di relazione tra dati. Insomma, cioè che afferisce alla nostra intelligenza ! Nel seguente articolo, in particolare, approfondiremo il meccanismo cognitivo del problem solving. Perché è importante conoscerlo?

Quando ci ritroviamo di fronte da una difficoltà, indipendentemente dalla natura della situazione, in qualche maniera cerchiamo di risolvere il problema, guidati dal nostro personale atteggiamento , appellandoci a strategie sperimentate già in precedenza e in situazioni simili. Come dire: “ se ha funzionato in passato, andrà bene anche stavolta !”. Non dimentichiamo che lo stereotipo abolisce le possibili differenze individuali e spontanee relative alle abilità cognitive di ognuno, tra cui appunto il problem solving. Ma non sempre il collaudo precedente di una strategia risolutiva è garanzia di efficienza massima! Molte persone non se ne rendono conto in modo immediato. Perseverano nel provare ad applicare quel metodo sperando di riscontrare una soluzione al loro problema.

Attenzione: insistere eccessivamente (senza alcun risultato) non è un bene! Non solo rende percettivamente più complicato il problema di quanto già non lo sia, ma può essere anche notevolmente frustrante e fonte di stress !

Il problem solving è una delle soft skills sempre più richiesta sul mercato del lavoro.

E quindi quali sono le strategie più efficaci di problem solving? Quale sarebbe l’approccio corretto alla situazione problematica? Senza dubbio se vuoi essere un buon “problem solver” devi imparare a spostare il tuo punto di osservazione, aggiungere un pizzico di creatività e ampliare il ventaglio delle possibili soluzioni. Dunque, si può imparare a pensare in modo creativo per “spettinare i nodi” di un problema?

Scopriamolo insieme gradualmente e prepariamoci a raccogliere qualche utile suggerimento!

Vedi anche: Memoria e  Memoria di Lavoro

problem solving cos'è e strategie

Problem Solving, Significato

Con il termine “ problem solving ” si intende un processo di soluzione dei problemi . E’ un atto mentale complesso, dove confluiscono modalità di elaborazione delle informazioni, di valutazione dei dati e formulazione di un giudizio, di pianificazione dell’azione e anticipazione delle conseguenze.

Secondo Duncker il problem solving consisterebbe in un’“analisi di mezzi-fini”. Un processo attraverso cui vengono ricercati i mezzi più efficienti per ridurre le differenze tra la situazione in cui si verifica il problema e l’obiettivo desiderato. In termini più generali e applicativi, potremmo considerarlo come una competenza trasversale, indispensabile in qualunque ambito: professionale e di routine quotidiana. Lo scopo essenziale è quello di organizzare le nostre risorse cognitive per risolvere un problema che ci affligge o ci risulta di impedimento per qualcos’altro. Imparare ad essere anche resilienti e a superare i conflitti (vedi anche: bullismo ).

Vedi anche: meccanismi di coping

In Neuropsicologia è stato dimostrato che lesioni al lobo frontale e ai sistemi di controllo compromettono le capacità di problem-solving. In Psicologia Clinica , più specificatamente nell’ambito delle psicopatologie, il processo di problem-solving è compromesso in alcune patologie come il Ritardo Mentale e l’ ADHD , in cui risulta difficile il processo attentivo volto alla pianificazione delle azioni.

Molte problematiche di malessere psicologico sono caratterizzate da modalità inadeguate di problem solving. Una persona che si trova in una condizione di disagio difficilmente riuscirà a ragionare in modo coerente e funzionale, perché è sopraffatta dalle proprie emozioni . Questo può favorire il mantenimento dei sintomi, ritardando il ritorno ad una condizione di benessere . E’ il caso, ad esempio, di problematiche come il disturbo borderline di personalità, il depressivo maggiore , l’ ansia patologica e gli attacchi di panico,  i disordini alimentari e anche i disturbi del sonno (vedi anche insonnia ). Anche per questo, è importante saper padroneggiare delle buone competenze cognitive, che impediscano lo sviluppo di psicopatologie o il peggioramento dei sintomi.

Tipi di Problema

Cos’è un “ problema ”? Facciamo riferimento alla definizione enciclopedica della Treccani. “Qualsiasi situazione, caso, fatto che, nell’ambito della vita pubblica o privata, presenti difficoltà, ostacoli, dubbi, inconvenienti più o meno gravi da affrontare e da risolvere”.

Da un punto di vista più tecnico e analitico, un problema rientra in una delle seguenti categorie: sistemazione , induzione di una struttura , trasformazione . Partendo da questo presupposto, comprenderemo facilmente come la risoluzione di ciascun tipo di problema implichi un diverso genere di capacità psicologica e di conoscenza. Approfondiamo insieme le caratteristiche dei diversi tipi di problema.

Anche nel caso della comunicazione di una diagnosi alla famiglia, come nel caso di disabilità infantile, conta lo stile problem solving.

Problema di Sistemazione

Il problema di sistemazione richiede che la persona ridisponga o ricombini gli elementi in un modo che soddisfi un certo criterio. Normalmente diverse disposizioni possono essere pensate, ma solo una o poche altre produrranno la soluzione. Gli anagrammi e i puzzle sono esempi di problema di sistemazione.

Anagramma : sostituzione di una parola con un’altra parola, nella quale le lettere che compongono la prima sono le stesse ma in posizione scambiata. Ad esempio anagrammi di Roma: Mora, Orma.

Vedi anche:

  • Linguaggio Verbale e del Corpo
  • Afasia, Fluente e Non Fluente

come risolvere un'anagramma

Problema di Induzione

Il problema di induzione di una struttura prevede che una persona identifichi la relazione esistente tra gli elementi presenti e successivamente costruire nuove relazioni tra di loro. In tali problemi non solo bisogna determinare la relazione tra gli elementi, ma anche la struttura e la misura di questi. Solo dopo aver identificato questa parte del problema si può procedere a determinare la regola di risoluzione.

Vediamo qualche esempio pratico.

Esempio 1. Completa la seguente analogia: “il baseball sta alla mazza come il tennis sta …?”.

il tennis sta alla racchetta

Esempio 2. Completa la serie di numeri: “ 1 4 2 4 3 4 4 4 5 4 6 4 ? ?”.

Soluzioni . Esempio 1: “racchetta”. Esempio 2: “7 4”. In questo caso la regola di risoluzione prevede che la serie di numeri venga letta a coppie di due (14-24-34 e così via). Il primo numero di ciascuna coppia aumenta di uno, mentre il secondo rimane uguale.

Problema di Trasformazione

Il problema di trasformazione è composto da uno stato iniziale (primo stadio), uno stato finale (secondo stadio) e un metodo che conduca dal primo al secondo stadio.

Cerchiamo di comprendere meglio di cosa si tratta attraverso un piccolo esercizio.

Immaginiamo di avere 3 vasi pieni d’acqua di diversa capienza. Vaso A (28 decilitri), Vaso B (7 decilitri), Vaso C (5 decilitri). Come possiamo misurare esattamente 11 decilitri di acqua all’interno del Vaso A?

Soluzione . Svuotiamo il contenuto del Vaso A una volta nel Vaso B e per due volte nel vaso C. Ciò che rimane nel Vaso A sono 11 decilitri.

problem solving: come riempire i 3 vasi

Il problem solving è fondamentale anche nel processo di elaborazione del lutto. Per saperne di più: Lutto, Come Superarlo?

Problem Solving, Fasi

Nel 1970, Ronald Havelock si occupò del funzionamento delle capacità di problem solving, da lui intese come quelle abilità che hanno modalità graduali e sistematiche per rispondere a dei bisogni.

Havelock articola il processo di problem solving in 5 fasi:

  • Definizione del problema.
  • Individuazione degli obiettivi.
  • Scelta della soluzione (decidere).
  • Applicazione della soluzione (sperimentazione).
  • Verifica dell’efficacia della soluzione (valutazione).

Appare evidente come, secondo tale approccio, il processo di problem solving sia sistematico e derivi da una sequenza di azioni che permettono di arrivare a una soluzione ragionata.

Un gruppo maggiormente coeso è un gruppo in cui risulta più probabile che i membri restino al suo interno a farne parte, partecipino alle attività con entusiasmo e promuovano nuove idee, ad esempio nella risoluzione di problemi (problem solving).

problem solving: procedere per fasi

Anche altri autori hanno analizzato il processo di problem solving, suddividendolo in fasi e focalizzando l’attenzione sugli aspetti cognitivi e logici di tale costrutto. In che modo? Rappresentandolo come una sequenza di azioni che si conclude con un feedback , il quale a sua volta può riavviare l’intera sequenza.

In psicologia del lavoro e delle organizzazioni , viene studiata la capacità di attuare il processo di problem solving, utile a migliorare l’efficacia delle performance lavorative, sia individuali, sia di gruppo. Gli psicologi del lavoro possono avvalersi di tecniche di gamification per scovare candidati dotati di problem solving.

Problem Solving, Test

Il problem solving , da un punto di vista logico-razionale, può essere valutato attraverso la somministrazione di alcuni test .

Tra i più diffusi c’è il Problem Solving Inventory di Happner, uno strumento di autovalutazione. Composto da 35 item che indagano l’efficacia percepita dal soggetto nell’affrontare la risoluzione di un problema e la tendenza generale nell’affrontare o evitare le attività di problem solving. Infine, il grado in cui l’individuo ritiene di poter controllare le proprie emozioni e reazioni durante la risoluzione dei problemi.

In ambito neuropsicologico, invece, le capacità di problem solving vengono valutate attraverso diversi test cognitivi. In particolare, nella Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS) vi sono determinati subtest che indagano le capacità di ragionamento e soluzione di problemi aritmetici.

Le scale Wechsler sono utilizzate per la valutazione di vari disturbi, come per esempio:

  • DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento)
  • Dislessia , Disortografia e Discalculia

Un altro esempio è il test della Torre di Londra , utilizzato per la valutazione delle capacità di pianificazione. Il paziente deve risolvere delle condizioni problematiche che gli vengono prospettate (es. posizionare delle palline su tre pioli secondo una configurazione data ). Tutto ciò nel minor tempo possibile e seguendo determinate regole ( es. numero di mosse definito ).

valutare il problem solving con la Torre di londra

In psicologia dello sviluppo e psicologia scolastica , invece, la valutazione delle capacità di problem-solving dei bambini è predittrice non solo del funzionamento cognitivo e dei processi mentali attivati durante questa attività, ma anche delle capacità intrinseche del bambino che possono essere messe in atto in altri contesti della sua vita presente e futura.

Problem Solving e Creatività

L’individuazione dei vari stadi del processo di problem solving ci aiuta a comprendere come avvenga razionalmente l’approccio alla difficoltà. Eppure, non rende ragione del fatto che alcuni di noi trovino soluzioni differenti e magari anche migliori rispetto ad un medesimo problema.

A questo punto, dovrebbe esserci chiaro che non sempre sono sufficienti valutazioni oggettive e procedure logiche per risolvere problemi. Alcune persone, infatti, sono dotate di creatività , ossia la capacità di collegare idee o risposte in modo originale. Per approfondire l’argomento “creatività”, puoi leggere anche l’articolo dedicato alla percezione .

problem solving e creatività

A volte, occorre anche una sintesi “originale” dei dati, che implica un approccio creativo e intuitivo, proprio come avviene attraverso l’insight!

Con il termine “ insight ” (“intuizione”, “illuminazione”) si intende un’improvvisa realizzazione della relazione esistente tra vari elementi che precedentemente sembravano tra loro scollegati.

L’insight è stato storicamente studiato nell’ambito della Psicologia della Gestalt .

Uno dei primi che ne approfondì il funzionamento in modo empirico fu il gestaltista W. Kohler , che tra il 1913 e il 1920 effettuò degli esperimenti sui primati sull’isola di Tenerife. Lo scopo era comprendere le capacità di pensiero rilevanti per la risoluzione dei problemi . Egli osservò il comportamento di alcuni scimpanzè posti davanti a problemi detti di “aggiramento” . Gli animali, chiusi in una gabbia, dovevano recuperare delle banane situate al di là delle sbarre. Dovevano appunto “aggirare” il problema di raggiungere il cibo. Il comportamento degli scimpanzè evidenziò la capacità di trovare soluzioni innovative per la risoluzione del problema. I risultati delle sue osservazioni fornirono le basi per la formulazione della Teoria dell’insight , capacità legata all’ apprendimento e al problem solving.

Come facevano gli scimpanzé a raggiungere il cibo? Univano due ramoscelli per crearne uno più lungo ed afferrare le banane. Per approfondire l’argomento, ti lasciamo qui un link all’esperimento di Kholer.

Fissità Funzionale

Cosa ostacola e impedisce l’insight, inteso come atto di problem solving creativo? La fissità funzionale , studiata da Ducker . Con questo concetto egli intese la difficoltà degli individui di discostarsi da processi di pensiero già sperimentati in precedenza, e pertanto di trovare soluzioni nuove ad un problema . Ciò fu chiaramente verificato a livello sperimentale.

Nel suo celebre esperimento, “Il problema della candela” , dei soggetti avevano a disposizione una candela, dei fiammiferi e una scatola di puntine. Il compito assegnato loro prevedeva di fissare la candela al muro senza utilizzare altri oggetti se non quelli a disposizione. Duncker osservò che vi erano difficoltà nella risoluzione del compito in base al gruppo osservato. Ad un gruppo di partecipanti, infatti, la scatola di puntine era presentata piena, mentre all’altro gruppo le puntine erano presentate fuori dal loro contenitore.

La fissità funzionale in questo esperimento si esprime nella capacità di ideare un nuovo uso della scatola che per il primo gruppo è intesa come un contenitore. Al contrario, per il secondo gruppo vi è la possibilità di ipotizzarne un uso diverso, poiché le puntine non sono contenute all’interno e quindi la soluzione è più semplice.

fissità funzionale: il problema delle candele

Pensiero Divergente

Senza dubbio risulta molto più semplice individuare esempi di creatività, nel nostro agire quotidiano, piuttosto che trovarne spiegazioni. Ricercare la “causa” della creatività non è un’operazione banale! Neppure a livello teorico. Sembra, tuttavia, che esistano diversi fattori associabili alla creatività. Uno tra questi è il pensiero divergente . Si tratta dell’abilità di generare risposte inusuali, sebbene appropriate, a problemi e questioni .

Per esempio, una caffetteria può diventare un fermacarte, una palla un puntaspilli .

pomodoro puntaspilli

Così stimoliamo la persona ad abbandonare risposte già pronte (cioè gli algoritmi cognitivi sviluppati e affinati con l’esperienza) a favore di nuovi collegamenti . Come nell’esempio riportato, tra l’oggetto e i relativi usi possibili . Ecco qui un sito in cui troverete indovinelli divertenti per allenare il vostro pensiero divergente!

Problem Solving, Esercizi

Possiamo imparare a “pensare meglio”? Possiamo potenziare la nostra capacità di essere risolutivi di fronte ai problemi?

Per molti individui la capacità di problem solving è notevolmente spiccata. Per altri non particolarmente avvezzi niente paura: ci si può lavorare! Il problem solving può essere stimolato, sviluppato e/o acquisito con l’esperienza.Vale la pena sottolineare alcuni punti importanti. Teniamo ben a mente che lavorare per  potenziare e incrementare le nostre abilità di problem solving  può apportare molti benefici alla nostra autostima e al senso di autoefficacia personale!

come migliorare la capacità di problem solving

Consideriamo, per esempio, alcuni dei seguenti suggerimenti per incoraggiare un problem solving creativo, efficace e in grado di soddisfare anche la nostra autostima.

Ridefinizione dei problemi

Come? Riformulando un problema in maniera più astratta, o al contrario più concreta in base alle circostanze. In questo modo, saremo in grado di abbattere i limiti e i pregiudizi legati al problema e dare una spinta energica alla nostra capacità di problem solving. La difficoltà ad affrontare situazioni stressanti entra a far parte anche del disturbo oppositivo provocatorio , tipicamente sviluppato in infanzia e adolescenza.

Utilizzo delle analogie

Le analogie forniscono contesti alternativi per l’interpretazione di fatti e aiutano a scoprire nuovi modi di comprendere. Un modo efficace di trovare analogie è generalmente quello di fare paragoni, ad esempio con il mondo animale.

I primi architetti scoprirono il modo per costruire i grattacieli tramite l’osservazione del modo in cui letti di ninfee sulla superficie dell’acqua riescono a sostenere il peso di una persona.

Pensare in modo divergente

Invece di considerare puntualmente l’uso più logico e comune di un oggetto, si può cercare di riflettere sugli usi possibili. Nel caso in cui ci fosse impedito di impiegare quell’oggetto per come lo conosciamo.

Sperimentare diverse soluzioni

Quando si dice “tutte le strade portano a Roma” . È una metafora con un fondamento di verità. Non bisogna avere timore di utilizzare diverse strade per trovare le soluzioni dei problemi (verbali, matematici, grafici e anche drammatici). Per esempio si può provare ad avanzare qualsiasi soluzione ci venga in mente, per quanto bizzarra o assurda ci possa sembrare all’inizio. Non freniamo la nostra comunicazione ! Dopo aver raccolto una lista di possibili soluzioni, si può cercare di revisionarle una per una e pensare  a modi per rendere più fattibili quegli aspetti che prima sembravano improponibili.

Vedi anche: Comunicazione Assertiva

il gioco aiuta a sviluppare problem solving

Assumere la prospettiva di un’altra persona

Cerchiamo di immedesimarci temporaneamente nel punto di vista di un’altra persona e in ciò che sta provando. Così facendo è possibile guadagnare lucidità nella valutazione della situazione.

Analisi scritta

Per attuare questa tecnica ci bastano carta e penna. Sul foglio prendiamo appunti del problema e delle sue caratteristiche. È necessario essere un pochino scrittori reporter e descrivere la problematica. Per facilitare questa procedura possiamo immaginare di porci delle domande e darci delle risposte. Ad esempio chiederci: “perché questa situazione mi crea preoccupazione?”, “perché la identifico come un problema?”, “chi è coinvolto nella difficoltà oltre me?” e così via. Così facendo possiamo mettere a fuoco la situazione problematica e predisporre delle risposte-azioni promettenti.

Giochi di ruolo

Questo tipo di strategia viene ampiamente utilizzata in team aziendali o altri gruppi di individui, come le squadre di atleti sportivi. Come funziona? In sintesi, si va ad inscenare una storia in cui vi sia un problema significativo in base al contesto. I membri del gruppo interpretano ciascuno un personaggio che deve affrontare le difficoltà e dare un contributo personale alla risoluzione del problema, in base a capacità e conoscenze individuali.

Questo esercizio, oltre ad essere divertente, è anche molto utile per lavorare sulla motivazione dei partecipanti. Inoltre, anche il “fare esperienza” in maniera diretta permette di acquisire e rafforzare capacità di problem solving in contesti sportivi o aziendali. Non dimentichiamo che i giochi di ruolo hanno effetti positivi anche sull’ empatia e la coesione tra i membri del gruppo.

  • Tag: funzioni cognitive

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Il Problem-Solving: Un Approccio Didattico per lo Sviluppo del Pensiero Critico

Problem Solving

Il problem-solving è una strategia didattica che mira a sviluppare il pensiero critico, la creatività e la capacità di risolvere i problemi negli studenti. Questo approccio si basa sulla convinzione che gli studenti imparino meglio quando sono coinvolti attivamente nella risoluzione di situazioni complesse e reali.

Il problem-solving si concentra sull’insegnamento di competenze che vanno al di là delle nozioni di base e si focalizza sulla capacità degli studenti di affrontare problemi complessi, analizzare le informazioni disponibili, generare idee e sviluppare soluzioni efficaci. Invece di essere passivi ascoltatori, gli studenti diventano attori principali del loro apprendimento.

Le basi pedagogiche del problem-solving si collegano a teorie come il costruttivismo e il cognitivismo . Secondo queste teorie, gli studenti costruiscono attivamente il loro sapere attraverso l’interazione con il mondo circostante. Il problem-solving offre agli studenti l’opportunità di applicare le conoscenze e le competenze acquisite in situazioni reali, incoraggiando l’apprendimento significativo.

  • Un esempio di attività di problem-solving potrebbe essere la risoluzione di un enigma matematico . Gli studenti affrontano un problema complesso che richiede l’applicazione di concetti matematici per trovare la soluzione. Durante il processo, gli studenti devono analizzare il problema, identificare le informazioni rilevanti, formulare ipotesi e testare diverse strategie per raggiungere una soluzione. Questo promuove la capacità di problem-solving, il pensiero critico e la logica matematica.
  • Un altro esempio potrebbe essere una simulazione di un dibattito su un problema sociale. Gli studenti sono divisi in gruppi e assegnati a ruoli specifici. Devono analizzare il problema da diverse prospettive, raccogliere e valutare prove, e presentare argomentazioni convincenti per sostenere le loro posizioni. Questo sviluppa le competenze di ricerca, analisi critica e comunicazione efficace.

L’utilizzo di tecnologie digitali può anche arricchire l’esperienza di problem-solving degli studenti. Ad esempio, l’utilizzo di strumenti di visualizzazione dei dati o software di simulazione può consentire agli studenti di esplorare problemi complessi in modo interattivo. Possono manipolare i dati, analizzare i risultati e trarre conclusioni informate, migliorando così le loro competenze nel problem-solving e nell’interpretazione dei dati.

L’implementazione del problem-solving richiede una certa pianificazione da parte degli insegnanti. È necessario fornire agli studenti supporto e guida durante il processo di problem-solving, incoraggiando la riflessione, la collaborazione e il confronto tra gli studenti.

In conclusione, il problem-solving è una strategia didattica efficace per lo sviluppo del pensiero critico e delle abilità di risoluzione dei problemi negli studenti. Attraverso l’analisi di problemi complessi, gli studenti possono applicare le loro conoscenze e competenze in modo significativo e sviluppare abilità trasferibili che saranno utili nella vita quotidiana e nel futuro lavoro. Gli sforzi investiti per promuovere il problem-solving negli studenti sono ampiamente ripagati in termini di apprendimento significativo e sviluppo delle competenze chiave.

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  • Problem solving: scopri cos’è, il suo significato e come sviluppare al meglio questa skill

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Il termine “problem solving” in italiano si traduce come “risoluzione dei problemi”. Si riferisce alla capacità di affrontare, analizzare e risolvere efficacemente situazioni complesse o difficoltà.

Il problem solving implica la ricerca di soluzioni pratiche e creative per superare gli ostacoli o affrontare le sfide, utilizzando logica, ragionamento e strategie appropriate è una competenza fondamentale per affrontare le sfide che la vita ci pone davanti. 

Sia che tu sia un imprenditore, un dipendente o semplicemente una persona in cerca di una vita migliore, il problem solving è un requisito essenziale per il successo. 

In questo articolo, esploreremo le migliori strategie e tecniche per affrontare e risolvere i problemi in modo efficace, fornendo una guida pratica per superare le sfide con successo.

6 step per sviluppare il problem solving

  • Comprendere la natura dei problemi

Per risolvere un problema, è fondamentale comprendere la sua natura . I problemi possono essere di varie tipologie: tecnici, relazionali, finanziari, e così via.

Prima di affrontare un problema, è importante identificarne la radice e definire chiaramente l’obbiettivo della risoluzione . Ad esempio, se una piccola impresa sta riscontrando difficoltà con le vendite, il problema potrebbe essere causato da diversi fattori, come la mancanza di marketing efficace o la concorrenza agguerrita.

Comprendere la natura del problema è il primo passo per risolverlo.

  • Raccogliere informazioni e dati pertinenti

Una volta compreso il problema, è essenziale raccogliere informazioni e dati pertinenti . Questo passaggio è cruciale perché ti permette di avere una visione chiara della situazione. 

Ad esempio, se stai cercando di risolvere un problema finanziario, dovresti raccogliere dati sui tuoi flussi di cassa, i costi operativi e i ricavi. 

Questi dati ti aiuteranno a identificare le aree critiche che richiedono intervento. L’uso di strumenti analitici e la consulenza di esperti possono essere preziosi in questa fase.

  • Generare opzioni di soluzione

Dopo aver acquisito informazioni rilevanti, è il momento di generare diverse opzioni di soluzione. Non fermarti alla prima idea che ti viene in mente; sii creativo e considera diverse alternative. 

Se stai cercando di aumentare le vendite, potresti considerare l’espansione del mercato, l’ottimizzazione dei processi produttivi o l’introduzione di nuovi prodotti o servizi . 

Valuta attentamente ciascuna opzione, tenendo conto dei suoi pro e contro.

  • Valutare le opzioni e prendere una decisione informata

Dopo aver generato diverse opzioni, è il momento di valutarle attentamente . Considera i benefici, i costi e i rischi associati a ciascuna opzione.

 Coinvolgi altre persone, se necessario, per ottenere diverse prospettive . Alla fine, prendi una decisione informata sulla soluzione migliore per il tuo problema. 

Ricorda che non esiste una soluzione universale per tutti i problemi, quindi è importante adattare la tua scelta al contesto specifico.

  • Pianificare e attuare la soluzione

Una volta presa la decisione, è fondamentale pianificare attentamente la soluzione. Definisci i passi necessari per mettere in pratica la tua decisione e stabilisci un piano d’azione. 

Assegna responsabilità specifiche a chi dovrà contribuire all’attuazione e stabilisci scadenze chiare. Un buon piano d’azione ti aiuterà a monitorare il progresso e a garantire che la soluzione venga implementata in modo efficace.

  • Monitorare e valutare i risultati

Dopo aver attuato la soluzione, è essenziale monitorare costantemente i risultati. 

Misura i progressi rispetto agli obbiettivi stabiliti e valuta se la soluzione ha prodotto i risultati desiderati. In caso contrario, non esitare a regolare il piano o a esaminare altre opzioni.

Il problem solving è spesso un processo iterativo in cui è necessario apportare modifiche in base ai feedback e all’evoluzione delle circostanze.

problem solving pergo

Sviluppare la resilienza e la flessibilità

La vita è piena di sfide e imprevisti , e la capacità di adattarsi alle nuove circostanze è essenziale per la risoluzione dei problemi.

 Sviluppa la tua resilienza e flessibilità , in modo da poter affrontare in modo efficace le sfide in evoluzione.

 La capacità di adattarsi alle nuove informazioni e di modificare le tue strategie di risoluzione dei problemi è un attributo prezioso .

Comprendere la natura dei problemi, raccogliere informazioni pertinenti, generare opzioni, prendere decisioni informate, pianificare l’attuazione, monitorare i risultati e imparare dagli errori sono passaggi chiave per affrontare con successo le sfide. 

Ricorda che il problem solving è un processo continuo, e con la pratica costante, puoi affinare le tue capacità e ottenere risultati sempre migliori .

Imparare dagli errori

Il problem solving comporta inevitabilmente la possibilità di commettere errori . Non temere gli errori, ma impara da essi. 

Ogni fallimento può offrire preziose lezioni che ti aiuteranno a migliorare le tue capacità di risoluzione dei problemi in futuro. 

Analizza ciò che ha causato l’errore e cerca di evitarlo nelle situazioni successive.

Cercare il supporto di esperti e collaborare

Nel processo di problem solving , non sottovalutare il valore di collaborare con esperti o cercare il supporto di persone con competenze specializzate. 

A volte, i problemi possono essere complessi e richiedere una conoscenza approfondita in un determinato campo. 

Collaborare con esperti o consulenti può portare a soluzioni più efficaci e tempestive.

Mantenere una mentalità positiva e proattiva

La mentalità svolge un ruolo fondamentale nel problem solving. Mantenere una mentalità positiva ti aiuterà a rimanere motivato e concentrato sulla ricerca di soluzioni. 

Evita di concentrarti solo sulle difficoltà , ma piuttosto cerca di vedere le sfide come opportunità per crescere e imparare.

Sii proattivo nella ricerca delle soluzioni, anziché aspettare che i problemi si risolvano da soli.

Comunicare in modo efficace

La comunicazione è spesso un elemento chiave nella risoluzione dei problemi, soprattutto quando coinvolge relazioni interpersonali. 

Imparare a comunicare in modo efficace, ascoltando le opinioni e i punti di vista degli altri, può contribuire notevolmente a risolvere conflitti e problemi relazionali .

 La comunicazione chiara e aperta è essenziale per assicurarsi che tutte le parti coinvolte siano sulla stessa pagina.

Pianificare per il futuro

Il problem solving non dovrebbe essere visto solo come una misura reattiva , ma anche come un’opportunità per pianificare per il futuro.

 Rifletti sulle soluzioni adottate e su come possano influire sui tuoi obbiettivi a lungo termine. 

Prendi in considerazione come puoi prevenire problemi simili in futuro e come puoi continuare a migliorare le tue capacità di risoluzione dei problemi.

Il problem solving è un processo che richiede una combinazione di abilità pratiche, mentalità positiva e adattabilità. 

Saper affrontare le sfide con determinazione e strategia è una competenza fondamentale per il successo nella vita personale e professionale. 

Continua a sviluppare queste abilità e approccia i problemi con fiducia , sapendo che sei in grado di affrontarli con successo.

Noi di Pergo conosciamo bene l’importanza del problem solving e come quest’approccio sia importante in ogni azienda, ecco perché ci occupiamo di formazione e coaching per aiutare imprenditori ed imprese a sviluppare un ambiente stimolante e produttivo.

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Quali sono le fasi del problem solving: una guida pratica

Il problem solving è un processo mentale che ci aiuta a risolvere i problemi e a prendere decisioni consapevoli. può sembrare un’attività semplice, ma comprendere le fasi del problem solving può aiutarci a essere più efficaci e efficienti nel trovare soluzioni. in questo articolo, esploreremo le fasi fondamentali del problem solving e forniremo una guida pratica per affrontare i problemi con successo..

Quali sono le fasi del problem solving: una guida pratica

Identificazione del problema

La prima fase del problem solving è l’identificazione del problema. È importante comprendere chiaramente quale sia il problema che stiamo affrontando. Definire il problema in modo specifico e dettagliato ci aiuta a focalizzarci sulla sua soluzione. Potremmo fare domande come:

  • Cosa sta causando questo problema?
  • Come influisce sulle nostre attività o sulla nostra vita?
  • Quali sono gli effetti a breve e lungo termine del problema?

Analisi del problema

Una volta identificato il problema, passiamo all’analisi. Durante questa fase, esaminiamo il problema da diverse angolature per comprenderne le cause e gli effetti. Alcune domande che potremmo porci sono:

  • Quali sono le possibili cause del problema?
  • Cosa dobbiamo conoscere per risolvere il problema?
  • Quali sono gli ostacoli che potrebbero impedirci di risolvere il problema?

Generazione di alternative

Una volta compresa la natura del problema, è opportuno generare alternative per risolverlo. Questa fase ci permette di esplorare diverse soluzioni possibili e di valutare i loro vantaggi e svantaggi. Potremmo chiederci:

  • Come possiamo affrontare il problema in modo creativo?
  • Quali soluzioni sono realistiche e fattibili?
  • Come possiamo sfruttare al meglio le nostre risorse disponibili?

Valutazione delle alternative

Dopo aver generato diverse alternative, dobbiamo valutarle per determinare quale potrebbe essere la migliore soluzione. Consideriamo i vantaggi e gli svantaggi di ciascuna alternativa e valutiamo la loro fattibilità e sostenibilità. Alcune domande che potremmo fare sono:

  • Quale alternativa è più adatta per risolvere il problema?
  • Quali potrebbero essere le conseguenze a breve e lungo termine di ciascuna alternativa?
  • Quali risorse saranno necessarie per implementare ciascuna alternativa?

Implementazione della soluzione

Dopo aver valutato le alternative, giungiamo alla fase di implementazione della soluzione scelta. In questa fase, mettiamo in atto le azioni necessarie per risolvere il problema identificato. Valutiamo la nostra capacità di adattamento e prepariamoci al cambiamento. Potremmo voler considerare le seguenti domande:

  • Come possiamo implementare con successo la soluzione?
  • Quali azioni specifiche dobbiamo intraprendere per risolvere il problema?
  • Come possiamo monitorare i progressi e misurare il successo della soluzione?

Valutazione dei risultati

Infine, è importante valutare i risultati della soluzione implementata. Verifichiamo se la soluzione ha risolto il problema in modo efficace o se sono necessarie ulteriori azioni. Potremmo chiederci:

  • La soluzione ha risolto completamente il problema?
  • Ci sono miglioramenti aggiuntivi che possiamo apportare al processo?
  • Cosa abbiamo imparato da questo problema e come possiamo applicare queste conoscenze in futuro?

Ora che hai compreso le fasi del problem solving, puoi migliorare le tue abilità decisionali ed essere più strategico nell’affrontare le sfide che incontri. Utilizza questa guida pratica per rendere il tuo processo di problem solving più efficace e raggiungere risultati concreti.

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considera il problem solving 1 della teoria

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Problem Solving

Negli anni 70-80 ogni attività orientata verso degli obiettivi (goal-oriented) era considerata problem solving. ma esiste, ad oggi, una definizione univoca.

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  • 1 Problem solving: un problema di definizione?
  • 2 I passaggi del problem solving
  • 3 Il problem solving in campo clinico
  • 3.1 Biblografia:

Da un punto di vista cognitivo, il problem solving può essere definito come un processo cognitivo che coinvolge: (a) la formazione di una rappresentazione iniziale del problema (ovvero una presentazione esterna del problema viene codificata in una rappresentazione interna); (b) la potenziale pianificazione di sequenze di azioni (es. strategie, procedure) per risolvere il problema e (c) l’esecuzione del piano e la verifica dei risultati.

Problem solving - TAG

Il tuo browser non supporta il tag video. Negli anni ’70 e ’80, la definizione di problem solving è stata ampliata fino a comprendere praticamente ogni attività cognitiva diversa dalla percezione e dalla memoria . Essenzialmente, ogni attività orientata verso degli obiettivi (goal-oriented) era considerata problem solving (Burns e Vollmeyer, 2000). Si ritiene che questo ampliamento della definizione ne comprometti tuttavia l’utilità a livello teorico e di ricerca (Quesada et al. 2005).

Problem solving: un problema di definizione?

Nel corso degli anni, si sono susseguite varie affermazioni sul significato di problem solving :

  • Il problem solving è definito come qualsiasi sequenza di operazioni cognitive diretta all’obiettivo . (Anderson, 1980, p. 257)
  • … Il problem solving è definito qui come una sequenza finalizzata all’obiettivo di operazioni cognitive e affettive, oltre che comportamentali, messe in atto allo scopo di adattarsi a richieste o sfide interne o esterne . (Heppner & Krauskopf, 1987, p. 375)
  • Ciò fai quando non sai cosa fare . (Wheatley, 1984, p. 1)

Queste definizioni sono esempi delle tante definizioni di problem solving che continuano a essere offerte in letteratura.

Ad un certo punto, negli anni ’90, sia i ricercatori europei che americani hanno ritenuto opportuno distinguere tra problem solving semplice e problem solving complesso . Per problem solving “semplice” si intende il processo messo in atto nella soluzione di compiti cognitivi e/o pratici che possono essere risolti attraverso semplici programmi di ragionamento, usando la logica pura (Quesada, 2005). Il problem solving complesso invece riguarda (Frensch e Funke, 1995b) quelle attività di risoluzione di un problema che sono: (1) dinamiche, perché richiedono delle prime azioni da svolgere nell’ambiente a partire dalle quali sono poi prese successive decisioni. Le caratteristiche dell’attività e dell’ambiente, inoltre, possono cambiare indipendentemente dalle azioni del risolutore; (2) dipendenti dal tempo,perché le decisioni devono essere prese al momento giusto in relazione all’ambiente; e (3) complesse, nel senso che la maggior parte delle variabili non sono correlate l’una all’altra in rapporto uno a uno. In queste situazioni, il problema non richiede una sola decisione, ma una lunga serie di decisioni, in cui le prime condizionano le successive.

I passaggi del problem solving

Sebbene molti individui siano naturalmente più predisposti al problem solving , non va dimenticato che questa è una competenza che può essere anche acquisita (University2business, 2019). Il metodo di problem solving più usato prevede quattro fasi o passaggi:

  • 1- Definizione del problema. Questa è una fase molto importante, analizzare una situazione e capire il vero nocciolo del problema è fondamentale. Molto utile, a questo proposito, può risultare scomporre il problema in piccoli problemi secondari e capire come poterli gestire e/o risolverli singolarmente.
  • 2- Creazione di alternative. Si tratta di una fase in cui, attraverso le informazioni che possediamo, cerchiamo di realizzare un piano per gestire il problema.
  •  3- Valutazione e selezione di alternative. Dopo aver preso in considerazione diverse soluzioni alternative, si può poi selezionare quella più idonea a raggiungere i nostri scopi.
  • 4- Implementazione delle soluzioni. Scelta la soluzione e realizzato il piano di attuazione, questo va implementato, e dunque eseguito (University2business, 2019).

Il problem solving in campo clinico

Il tuo browser non supporta il tag video. Avere una buona capacità di problem solving aiuta ad affrontare le difficoltà che si palesano nella vita di tutti i giorni e dunque ad uscire da momenti di impasse che, altrimenti, avrebbero effetti negativi sulla nostra salute psico-fisica. Nell’ambito dei disturbi alimentari, ad esempio, con il protocollo di Fairburn si aiutano i pazienti a sviluppare maggiori capacità di problem solving.

Eppure l’uso del problem solving per gestire i problemi emotivi sia nei  disturbi alimentari  che in generale può sembrare inizialmente un po’ semplicistico. Possibile che le ansie e i disagi del paziente possano essere gestiti con una tecnica razionale e pragmatica di gestione dei problemi? La difficoltà del paziente ad assumere un atteggiamento più razionale e meno emotivo non risiede forse in paure per affrontare le quali non basta apprendere a ragionare in un modo diverso, meno emotivo? Sono obiezioni per nulla infondate. Il protocollo di Fairburn punta al problem solving e, almeno per un certo numero (non piccolo) di pazienti, funziona. Le percentuali di successo variano dal 40 al 70% dei casi in cura. Queste cifre suggeriscono che effettivamente molti di questi pazienti, sebbene afflitti da paure significative e profonde, avevano bisogno di apprendere un modo diverso di ragionare, meno ‘di pancia’ e più controllato razionalmente.

Uno studio pubblicato sulla rivista  Psychology and Aging  ha dimostrato che un intervento di potenziamento cognitivo su adulti anziani è stato in grado di modificarne la personalità. È l’apertura al cambiamento – cioè l’essere flessibili e creativi, abbracciare nuove idee e portare avanti sfide intellettuali o culturali – il tratto della personalità che sembra essere correlato con le capacità cognitive e con il loro andamento. I partecipanti allo studio, tutti tutti di età compresa tra i 60 e i 94 anni, si sono impegnati per 16 settimane consecutive in compiti di problem solving, parole crociate e sudoku; l’allenamento, in accordo con il miglioramento delle prestazioni dei partecipanti, diventava ogni settimana più impegnativo. I risultati dell’esperimento indicano non solo che l’allenamento cognitivo e i compiti di problem solving hanno notevolmente incrementato le abilità legate al pensiero induttivo, ma anche che questo andava di pari passo con un aumento, moderato ma significativo, dell’apertura al cambiamento.

Biblografia:

  • Quesada, J., Kintsch, W., & Gomez, E. (2005). Complex problem-solving: A field in search of a definition? Theoretical Issues in Ergonomics Science, 6(1), 5–33. https://doi.org/10.1080/14639220512331311553
  • Burns, B.D. and Vollmeyer, R., 2000, Problem solving: phenomena in search for a thesis. In Proceedings of the Cognitive Science Society Meeting, 13–15 August 2000, Pittsburgh, USA, pp. 627–632 (Lawrence Erlbaum Associates: NY).
  • Anderson, J. R. (1980). Cognitive psychology and its implications. New York: Freeman.
  • Heppner, P. P., & Krauskopf, C. J. (1987). An information-processing approach to personal problem solving. The Counseling Psychologist, 15, 371–447.
  • Wheatley, G. H. (1984). Problem solving in school mathematics. (MEPS Technical Report No. 84.01). West Lafayette, IN: Purdue University, School Mathematics and Science Center.
  • Frensch, P., Funke, J. (1995) Complex Problem Solving: The European Perspective.
  • University2Bussiness (2019) Cos’è il problem solving e come sviluppare questa competenza. AVAILABLE HERE

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La capacità di problem solving è fondamentale per poter affrontare e risolvere costruttivamente le situazioni problematiche, come sottolineato dall’OMS

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Change è un testo di P. Watzlawick, J.H. Weakland, R. Fisch che risulta tuttora indispensabile e si concentra sulla formazione e la soluzione di problemi

Il sonno può facilitare l'elaborazione delle informazioni a livello inconscio

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Problem solving strategico: come risolvere i problemi

Articolo rivisto dal Comitato di GuidaPsicologi

È un modello che si può applicare a diversi ambiti e può permettere di affrontare problemi di diversa complessità.

Problem solving strategico: come risolvere i problemi

Se avessi solamente un'ora per salvare il mondo, passerei 55 minuti a definire bene il problema e 5 a trovare la soluzione (Albert Einstein).

I problemi sono un elemento naturale all'interno della nostra vita. È perfettamente normale, infatti, trovare piccoli e grandi ostacoli durante il cammino. La differenza fra una persona e l'altra riguarda proprio il modo di gestire e affrontare i problemi. All'interno della psicologia sono state create diverse strategie per la loro risoluzione. Una delle più conosciute è quella del cosiddetto " problem solving " (dall'inglese, risoluzione di un problema) che si concentra sul futuro e sul come risolvere il problema .

Il problem solving è un modello che si può applicare a diversi ambiti e può permettere di affrontare problemi di diversa complessità . Lo scopo è quello di spezzare il circolo vizioso causato dalla persistenza del problema e dalle soluzioni fallite. Questa strategia si divide essenzialmente in tre fasi: la definizione, un'analisi delle soluzioni finora tentate, l'obiettivo e la soluzione.

La definizione

Non si può risolvere un problema se non lo conosciamo a fondo. La prima fase, dunque, consiste nel chiedersi di fronte a quale ostacolo ci troviamo: perché, come è successo, etc. Più dettagli sappiamo, più siamo in grado di circoscrivere il problema e più vicina sarà la soluzione. In questa fase non bisogna avere molta fretta perché si tratta di un passo fondamentale per arrivare al superamento dell'ostacolo.

Gli obiettivi

Dal problema è necessario passare a definire i nostri obiettivi. È inutile pensare che non ci sia via d'uscita. È utile, invece, concentrarsi su cosa si vuole ottenere per superare l'ostacolo che abbiamo davanti. Per fare questo è preferibile vedere il problema come una sfida piuttosto che come una barriera insormontabile. Questo ci aiuterà ad avere più forza e ottimismo. La domanda principale è: in quale situazione devo trovarmi per poter affermare che il problema è stato risolto?

La soluzione

Definiti il problema e gli obiettivi, non resta altro che decidere in che modo superare l'ostacolo. La strategia, infatti, va definita in base all'entità del problema e all'obiettivo verso cui dirigersi. Tuttavia, prima di trovare il metodo migliore, è necessario ripercorrere tutte le soluzioni già utilizzate ma che non hanno funzionato. Ciò non vuol dire focalizzarsi sui tentativi falliti quanto piuttosto riconoscere ciò che non ha funzionato o cosa ha funzionato e limitarsi a utilizzare le parti positive.

Per arrivare alla soluzione vera e propria esistono diverse tecniche. Una di queste, ad esempio, è il Brainstorming (tempesta di idee) ovvero una riunione fra più soggetti - in realtà questa tecnica può essere utilizzate anche da soli - in cui vengono espresse liberamente una serie di idee per cercare la risoluzione del problema. Un'altra tecnica è quella dello " scenario oltre il problema " in cui si immagina la situazione ideale dopo aver superato l'ostacolo. Questa strategia ci aiuta a vedere ciò che realmente possiamo raggiungere e a circoscrivere il nostro obiettivo. La " tecnica dello scalatore " consiste, invece, nel ragionare al contrario. Invece di partire dal problema si comincia dall'obiettivo e si va a ritroso. In questo modo, sarà possibile trovare il percorso più corto per il superamento dell'ostacolo.

Se vuoi ricevere maggiori informazioni sul tema, puoi consultare il nostro elenco di professionisti esperti in orientamento personale .

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Chi ha parlato di problem solving?

considera il problem solving 1 della teoria

Il concetto di problem solving è stato affrontato da diversi autori e studiosi nel corso del tempo. Alcuni esempi includono la teoria del problem solving di George Polya, le strategie di risoluzione dei problemi proposte da Herbert A. Simon e le idee di problem solving presentate da John Dewey.

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Chi ha parlato per primo di problem solving?

La domanda "Chi ha parlato per primo di problem solving?" è troppo generica perché il concetto di problem solving è stato oggetto di studio e discussione da parte di molte persone nel corso della storia. Tuttavia, possiamo fare degli esempi di pensatori e studiosi che hanno contribuito alla comprensione del problem solving, anche se non possiamo identificare una singola persona che ne abbia parlato per prima. Ad esempio, nella filosofia antica, Socrate ha sviluppato il metodo della maieutica, che consisteva nell'affrontare i problemi attraverso una serie di domande e risposte al fine di giungere a una soluzione. Nel campo della psicologia, il teorico del comportamento Edward Thorndike ha introdotto il concetto di "trial and error" (tentativi ed errori) come un modo per risolvere i problemi. Nel campo dell'intelligenza artificiale, i ricercatori come Allen Newell e Herbert Simon hanno sviluppato il concetto di problem solving attraverso l'uso di algoritmi e strategie per raggiungere obiettivi specifici. In sintesi, il problema del problem solving è stato affrontato da numerose menti brillanti nel corso del tempo, e non possiamo attribuirne la paternità a una singola persona.

Chi per primo ha parlato di problem solving?

Il concetto di "problem solving" è stato introdotto per la prima volta nel campo della psicologia da John Dewey, un filosofo e psicologo americano, nel suo libro del 1910 "How We Think". Dewey ha introdotto l'idea che il pensiero è un processo attivo che risolve i problemi e che il pensiero riflessivo è essenziale per risolvere i problemi in modo efficace.

Chi ha studiato il problem solving?

Molti studiosi e professionisti hanno dedicato tempo e risorse allo studio del problem solving. Alcuni esempi noti includono matematici come George Pólya, psicologi come Herbert Simon e Allen Newell, e ricercatori nel campo dell'intelligenza artificiale come John McCarthy. Questi esperti hanno sviluppato approcci e teorie per comprendere e risolvere i problemi in vari contesti, come la matematica, la psicologia e l'intelligenza artificiale.

Chi ha teorizzato il problem solving?

Il problema del problem solving è stato teorizzato da diversi studiosi nel corso degli anni. Alcuni esempi di teorici del problem solving includono Herbert Simon, che ha sviluppato il concetto di "rappresentazione del problema" e ha studiato come le persone risolvono i problemi utilizzando strategie di ricerca; Allen Newell, che ha lavorato insieme a Simon per sviluppare il modello di problem solving chiamato "GPS"; e John Dewey, un filosofo e psicologo che ha sostenuto l'importanza del pensiero critico e riflessivo nel risolvere i problemi. Questi sono solo alcuni esempi di teorici del problem solving, poiché molti altri studiosi hanno contribuito a questa area di ricerca nel corso degli anni.

Chi parla di problem solving?

Il problem solving viene discusso da vari esperti nel campo della psicologia, dell'istruzione, della gestione aziendale e dell'informatica. Ad esempio, psicologi come John Dewey e Jean Piaget hanno studiato il problem solving nei bambini, mentre esperti di gestione aziendale come Peter Drucker e Stephen Covey hanno scritto ampiamente sull'argomento.

Chi ha inventato il problem solving?

Il problem solving è un processo cognitivo che implica la ricerca di soluzioni a situazioni complesse o problematiche. Non esiste un inventore specifico del problem solving in quanto è una capacità umana che si è sviluppata nel corso della storia. Tuttavia, possiamo citare alcuni teorici e psicologi che hanno contribuito allo studio e all'approfondimento di questo processo, come ad esempio John Dewey, Herbert Simon e George Polya .

Chi ha studiato per primo il problem solving?

Il primo studio sul problem solving.

Il concetto di problem solving è stato studiato per la prima volta da...

Chi ha inventato il metodo del problem solving?

Chi è stato il creatore del metodo di risoluzione dei problemi, quali esempi di metodologie di problem solving sono stati sviluppati da vari esperti.

Il metodo del problem solving è stato sviluppato da diversi studiosi nel corso degli anni. Uno dei principali pionieri è stato George Polya, un matematico ungherese del XX secolo. Ha introdotto un approccio sistemico alla risoluzione dei problemi noto come "Polya's Problem Solving Process". Questo metodo coinvolge quattro fasi principali: comprendere il problema, ideare una strategia, implementare la strategia e riflettere sulla soluzione.

Inoltre, altri esperti hanno sviluppato approcci specifici per affrontare problemi di natura diversa. Ad esempio, Edward de Bono ha introdotto il concetto di "pensiero laterale", che consiste nell'utilizzare metodi non convenzionali per risolvere i problemi. Herbert A. Simon, invece, ha proposto il concetto di "problem solving come processo decisionale", in cui i problemi sono affrontati attraverso l'analisi razionale delle opzioni.

È importante notare che il metodo del problem solving può variare a seconda del contesto e del tipo di problema da risolvere. Pertanto, esistono molte altre metodologie e approcci sviluppati da vari esperti nel corso degli anni.

Chi ha inventato la tecnica del problem solving?

Tecnica del problem solving.

La tecnica del problem solving è stata sviluppata da Alex Osborn e Sidney Parnes presso la School of Management dell'Università di Buffalo negli anni '50. Questa tecnica è stata successivamente diffusa e adattata in vari contesti professionali e educativi.

Chi ha elaborato lo schema del problem solving?

Lo schema del problem solving è stato elaborato da diversi studiosi nel corso del tempo. Alcuni dei principali contributori includono:

  • George Pólya
  • Herbert A. Simon
  • Allen Newell

Chi ha inventato la metodologia del problem solving?

Metodologia del problem solving.

La metodologia del problem solving è stata sviluppata da Alex Osborn, un pubblicitario americano, negli anni '40. Egli è stato uno dei pionieri nel campo del pensiero creativo e ha sviluppato tecniche per affrontare i problemi in modo innovativo.

Come spiegare problem solving?

Il problem solving può essere spiegato come il processo di individuazione e risoluzione di un problema o di una situazione complessa. È una capacità che coinvolge l'analisi, la creatività e la capacità di trovare soluzioni efficaci. Ad esempio, quando ci si trova di fronte a un problema matematico, si può utilizzare il problem solving per scomporre il problema in passaggi più semplici, identificare strategie e applicare metodi per arrivare alla soluzione corretta. In generale, il problem solving richiede di identificare il problema, generare opzioni, valutare le alternative e implementare la soluzione scelta.

Chi è il padre del problem solving?

Il padre del problem solving può essere considerato come un concetto che si è sviluppato nel corso del tempo da diverse discipline e da vari contributi di studiosi e ricercatori. Non c'è un singolo individuo che può essere definitivamente identificato come "il padre" del problem solving. Tuttavia, possiamo citare alcuni esempi di persone che hanno avuto un ruolo significativo nello sviluppo e nella diffusione di metodologie e approcci legati al problem solving. Ad esempio, Herbert A. Simon, premio Nobel per l'economia nel 1978, ha contribuito in modo significativo alla teoria del processamento delle informazioni e alla risoluzione dei problemi. Allo stesso modo, Allen Newell, collaboratore di Simon, ha svolto un ruolo importante nello sviluppo di modelli computazionali per la risoluzione dei problemi. Altri pionieri nel campo del problem solving includono John Dewey, Jean Piaget e Edward Thorndike, che hanno fornito importanti contributi alla comprensione dei processi cognitivi coinvolti nella risoluzione dei problemi. È importante sottolineare che il problem solving è un campo di ricerca multidisciplinare e che molti studiosi hanno contribuito in modo significativo alla sua evoluzione nel corso degli anni.

Cos'è la capacità di problem solving?

La capacità di problem solving è la capacità di affrontare in modo efficace e creativo situazioni complesse o problematiche al fine di trovare soluzioni adeguate. Questa abilità coinvolge la capacità di analizzare il problema, identificare possibili soluzioni, valutare le alternative e prendere decisioni informate. Un esempio di problem solving potrebbe essere la risoluzione di un puzzle o la gestione di una situazione imprevista in un ambiente di lavoro.

Come dimostrare capacità di problem solving?

Per dimostrare le proprie capacità di problem solving, è possibile fornire esempi specifici di situazioni in cui hai affrontato e risolto con successo problemi complessi. Ad esempio, potresti raccontare di come hai risolto un problema di comunicazione all'interno di un team di lavoro, identificando l'origine del conflitto e proponendo soluzioni per migliorare la collaborazione. Oppure, potresti parlare di come hai affrontato un problema tecnico durante un progetto, analizzando le possibili soluzioni, valutando i rischi e implementando la strategia più efficace per raggiungere l'obiettivo. Dimostrare la capacità di problem solving significa evidenziare la propria capacità di analisi critica, pensiero creativo e abilità nel prendere decisioni efficaci.

Come sviluppare capacità di problem solving?

Capacità di problem solving

Per sviluppare le capacità di problem solving è possibile seguire alcuni passi:

  • Analizzare il problema in modo dettagliato
  • Identificare le possibili soluzioni
  • Valutare i pro e i contro di ciascuna soluzione
  • Scegliere la soluzione più adatta
  • Implementare la soluzione scelta
  • Valutare i risultati e apportare eventuali correzioni

È inoltre utile esercitarsi con esempi pratici di problemi e risolverli in modo strutturato.

Come esercitare il problem solving?

Per esercitare il problem solving, puoi seguire diversi approcci. Innanzitutto, puoi iniziare con la definizione chiara del problema, analizzando tutte le sue componenti e cercando di capire le cause principali. Successivamente, puoi raccogliere tutte le informazioni pertinenti sul problema e cercare possibili soluzioni. Ciò può includere la ricerca di soluzioni simili adottate in passato, consultare esperti o utilizzare strumenti e risorse specifiche. Puoi anche provare a risolvere il problema in modo creativo, pensando fuori dagli schemi e cercando soluzioni non convenzionali. È importante anche considerare le conseguenze delle diverse soluzioni possibili e valutare i loro vantaggi e svantaggi. Infine, puoi sperimentare diverse soluzioni e valutare il loro successo. Ricorda che il problem solving è un processo continuo e che l'esperienza e la pratica giocano un ruolo fondamentale nel migliorare le abilità di problem solving.

Quanto guadagna un problem solving?

Non esiste una risposta esatta a questa domanda perché il salario di un problem solver dipende da vari fattori, come l'esperienza, il settore in cui lavora e la posizione aziendale. Tuttavia, posso darti degli esempi di possibili range di guadagno. Ad esempio, un problem solver alle prime armi potrebbe guadagnare circa 25.000-40.000 euro all'anno, mentre un problem solver con più esperienza e competenze specializzate potrebbe guadagnare 50.000-100.000 euro o più all'anno. È importante considerare che queste cifre sono solo indicative e possono variare notevolmente a seconda di diversi fattori.

Cosa fa il problem solving?

Cosa significa il termine "problem solving".

Il problem solving è un processo che consiste nell'identificare, analizzare e risolvere i problemi in modo efficace. Questa capacità è fondamentale in molte situazioni, sia nella vita quotidiana che nel contesto lavorativo.

Il problem solving coinvolge diverse fasi, tra cui:

  • Identificazione del problema: comprendere chiaramente quale sia il problema da affrontare.
  • Analisi del problema: esaminare le cause del problema e valutare le possibili soluzioni.
  • Sviluppo di soluzioni: generare diverse opzioni per risolvere il problema.
  • Valutazione delle soluzioni: valutare le diverse opzioni e scegliere quella più appropriata.
  • Implementazione della soluzione: mettere in atto la soluzione scelta.
  • Monitoraggio dei risultati: verificare se la soluzione adottata ha risolto il problema in modo soddisfacente.

Il problem solving richiede una combinazione di pensiero critico, creatività e capacità di prendere decisioni. È un processo che può essere appreso e migliorato con l'esperienza.

Cosa favorisce il problem solving?

Il problem solving può essere favorito da diversi fattori, tra cui:

  • Una buona capacità di analisi e di pensiero critico
  • La creatività nel trovare soluzioni alternative
  • La capacità di pianificazione e organizzazione
  • La collaborazione e il teamwork

Dove applicare il problem solving?

Il problem solving può essere applicato in diversi contesti, come ad esempio:

  • ambito lavorativo, per risolvere questioni legate alla produttività o alla gestione delle risorse;
  • ambito personale, per affrontare sfide quotidiane o prendere decisioni importanti;
  • ambito accademico, per risolvere compiti complessi o affrontare nuove sfide di apprendimento.

Quando nasce il problem solving?

Il problem solving nasce quando ci troviamo di fronte a una situazione problematica o complessa che richiede una soluzione. Ad esempio, può nascere quando dobbiamo risolvere un enigma, affrontare un conflitto, trovare una soluzione a un problema matematico o affrontare una sfida lavorativa.

Come descrivere il problem solving?

Il problem solving è il processo attraverso il quale individui o gruppi identificano, analizzano e risolvono i problemi. Può essere descritto come un'abilità che coinvolge diverse fasi, tra cui:

  • Analisi del problema: esaminare le cause e gli effetti del problema per individuare possibili soluzioni.
  • Implementazione della soluzione: mettere in atto la soluzione scelta e valutarne l'efficacia.
  • Valutazione: verificare se la soluzione adottata ha risolto il problema in modo efficace.

Come implementare il problem solving?

Per implementare il problem solving , puoi seguire questi passaggi:

  • Identificare il problema in modo chiaro e preciso
  • Raccogliere tutte le informazioni necessarie sul problema
  • Generare possibili soluzioni al problema
  • Valutare le soluzioni proposte, considerandone i pro e i contro
  • Scegliere la soluzione più adatta e attuare un piano d'azione

Come spiegare il problem solving?

Il problem solving è il processo di identificare un problema, sviluppare soluzioni e prendere decisioni efficaci per risolverlo. Ad esempio, quando ti trovi di fronte a un'opportunità o a una sfida, puoi utilizzare il problem solving per analizzare la situazione, valutare le opzioni disponibili e scegliere la migliore strategia per affrontarla. Questo processo coinvolge spesso la raccolta di informazioni, la valutazione dei rischi e dei benefici, e la pianificazione di azioni concrete per risolvere il problema.

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considera il problem solving 1 della teoria

Problem solving: cos'è e perché è importante

Il problem solving è essenziale: ogni giorno ci troviamo di fronte a degli ostacoli che affrontiamo senza ideare una soluzione efficace. leggi l'articolo..

La capacità di problem solving - cioè di risoluzione dei problemi - è essenziale per le tue giornate: sia che ti trovi a casa, a scuola o al lavoro, ogni giorno incontri ostacoli che spesso salti a piedi pari senza soffermarti realmente su una soluzione efficace .

È importante specificare che, nella maggior parte dei casi, non esiste una soluzione assoluta a un problema : diverse persone affrontano le difficoltà in modo diverso. La parte cruciale, su cui agire per migliorare l’abilità di problem solving, è il processo di identificazione del problema, ovvero l’ideazione di possibili percorsi di soluzione.

In questo articolo vi raccontiamo:

  • Perchè è importante il problem solving

Le migliori strategie di problem solving

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Perché è importante il problem solving

Ragionare su come risolvere un problema ti aiuta anche ad allenare il pensiero laterale e migliorare la concentrazione nella vita personale e nel percorso professionale. Oggi i datori di lavoro spesso identificano nella capacità di pensare a soluzioni creative e alternative il successo delle loro organizzazioni. 

Se ti stai chiedendo: " Allenare il problem solving è possibile?" ti rispondiamo noi di Tutornow, assolutamente sì. Come qualsiasi altra abilità, si possono sviluppare strategie risolutive sempre più efficaci con un costante allenamento . La ricerca di una soluzione è - in sintesi - la via dell’identificazione di un problema.

Strategia algoritmica e strategia euristica

Esistono due tipi gruppi di strategie: algoritmiche ed euristiche . Le strategie algoritmiche sono guide tradizionali passo-passo per risolvere i problemi con un'unica soluzione, ad esempio quelli matematici. 

Ma cosa accade quando non esiste un'unica strada per superare un ostacolo? Ecco che arrivano in tuo aiuto i metodi euristici, il cui obiettivo è escogitare “scorciatoie” e produrre soluzioni valide quando hai a disposizione informazioni complesse e un periodo di tempo limitato . Gli investitori e i professionisti finanziari spesso utilizzano un approccio euristico per accelerare l'analisi e le decisioni di investimento. 

Il centro delle strategie euristiche sono la flessibilità e la necessità di trovare soluzioni rapide con dati complessi . Euristico deriva dalla parola greca che significa " scoprire ". L'euristica facilita decisioni tempestive , rendendo il processo decisionale più semplice e veloce.

Un esempio concreto: in Australia, dove la telefonia pubblica è gratuita, gli utenti tenevano occupato per troppo tempo le postazioni telefoniche. Il problema posto dall’amministrazione è stato: “Come accorciare il tempo di utilizzo del telefono senza toccare la gratuità del servizio e senza porre un limite fisico alla telefonata?”.

Immagina le soluzioni possibili. Sai qual è stata la soluzione vincente? Appesantire la cornetta del telefono. Senza cambiare nulla nell’offerta del servizio, la pesantezza della cornetta portava l’utente a terminare prima la telefonata.

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Forse non sapevi che…

… l’abilità di problem solving è presente anche negli animali. Uno scimpanzé è stato posto di fronte al problema: come estrarre un'arachide da un tubo immobile e ben piantato a terra? Ecco il risultato: vedi link Youtube .

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Sviluppare la metacognizione nel problem solving: un percorso di ricerca didattica nella scuola secondaria di primo grado

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2020, Didattica della matematica. Dalla ricerca alle pratiche d’aula (DdM)

Sunto / Le difficoltà incontrate dagli studenti nel problem solving (PS) sono da sempre oggetto di studio nella ricerca in didattica della matemati-ca, ma solo recentemente l'attenzione si è foca-lizzata sulla metacognizione e sul suo ruolo. In una scuola secondaria di primo grado italiana, è stato realizzato un percorso di apprendimento sul PS rivolto al potenziamento della metacogni-zione, con uso di strumenti scientificamente vali-dati e fruibili dai docenti senza la mediazione o il supporto di esperti. Vengono descritte e discusse le attività proposte in tre classi terze (campione di 54 alunni), orga-nizzate prevalentemente in lavori di gruppo di studenti suddivisi per livelli di competenza. Dalla valutazione conclusiva è emerso un miglio-ramento nelle capacità metacognitive e negli esiti del PS, sebbene il dato sia apparso meno signifi-cativo per gli studenti con bisogni educativi spe-ciali (BES). Parole chiave: metacognizione; problem solving ; test standardizzati; valutazione. Abstract / Research in mathematics education has always concerned the difficulties encountered by students in problem solving (PS); however , attention has only recently been focused on metacognition and its role. Three 8th grade classes of an Italian lower secondary school have been subjected to an educational path that was designed with the aim of enhancing metacognition in PS and with the use of scientifically validated tools that can be used by teachers without any specific intervention and support of external experts. The activities proposed to a sample of 54 students (divided into work groups according to their performance level in PS) are here described and discussed. The final evaluation revealed an improvement in metacognitive abilities and PS outcomes, though results were less significant for students with special educational needs. © 2020 Pietrapiana Daniela e Donadio Stefania. Questo è un articolo Open Access, sottoposto a un processo di revisione tra pari a doppio cieco, pubblicato dal Centro competenze didattica della matematica e dal Servizio comunicazione del DFA-SUPSI in collabo-razione con il DECS. L'articolo è distribuito sotto i termini della Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale (CC BY 4.0) che permette di usare, condividere e modificare l'articolo su qualsiasi mezzo a patto che l'autore e la fonte originale siano citati.

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Teoria computazionale della mente

The following is the translation of Michael Rescorla’s entry on “The Computational Theory of Mind “in the  Stanford Encyclopedia of Philosophy . The translation follows the version of the entry in the SEP’s archives at  https://plato.stanford.edu/archives/win2020/entries/computational-mind/ . The translated version may differ from the current version of the entry, which may have been updated since the time of this translation. The current version is located at  https://plato.stanford.edu/entries/computational-mind/  . We’d like to thank the Editors of the  Stanford Encyclopedia of Philosophy  for granting permission to translate and publish this entry on the web.

******* SEP translations *******

Una macchina sarebbe in grado di pensare? La mente potrebbe essere essa stessa una macchina pensante? La rivoluzione informatica ha rivoluzionato il dibattito intorno a queste domande, fornendo prospettive ottimali per le macchine che simulano il ragionamento, il processo decisionale, il problem-solving, la percezione, la comprensione linguistica, ed altri processi mentali. I progressi nell’informatica suggeriscono la possibilità che la mente stessa sia un sistema computazionale, una posizione nota come teoria computazionale della mente (TCM). I computazionalisti sono ricercatori che sostengono la TCM, almeno per come viene applicata ad alcuni importanti processi mentali. La TCM ha svolto un ruolo centrale nella scienza cognitiva negli anni ’60 e ’70. Per molti anni ha goduto di uno statuto ortodosso. Più di recente, è stata messa in crisi da vari paradigmi avversari. L’obiettivo decisivo per i computazionalisti è quello di spiegare cosa si intende quando si dice che la mente “computa”. Un secondo compito è sostenere che la mente “computa” nel senso rilevante. Un terzo compito è chiarire come la descrizione computazionale si relaziona ad altri tipi comuni di descrizione, in particolare alla descrizione neurofisiologica (che fa riferimento alle proprietà neurofisiologiche del cervello o del corpo dell’organismo) e alla descrizione intenzionale (che fa riferimento invece alle proprietà rappresentazionali degli stati mentali).

  • 1. Macchine di Turing
  • 2. Intelligenza artificiale

3.1 Funzionalismo della macchina

  • 3.2 La teoria rappresentazionale della mente

4.1 La relazione tra le reti neurali e il computazionalismo classico

4.2 argomenti a favore del connessionismo, 4.3 sistematicità e produttività, 4.4 neuroscienze computazionali, 5.1 la formalità della computazione.

  • 5.2 Esternismo sul contenuto mentale

5.3 Computazione contenutistica

6.1 elaborazione delle informazioni, 6.2 analisi funzionale, 6.3 strutturalismo, 6.4 teorie meccanicistiche, 6.5 pluralismo, 7.1 argomenti della banalità, 7.2 l’incompletezza del teorema di gödel, 7.3 limiti del modello computazionale, 7.4 gli argomenti temporali, 7.5 la cognizione incorporata, bibliografia, strumenti accademici, altre risorse in internet.

  • Voci correlate 

1. Macchine di Turing

Le nozioni intuitive di computazione e algoritmo sono centrali in matematica. In parole povere, un algoritmo è una procedura esplicita e dettagliata per rispondere a qualche domanda o risolvere qualche problema. Un algoritmo fornisce istruzioni meccaniche di routine che stabiliscono come si debba procedere in ogni fase. Obbedire alle istruzioni non richiede ingegnosità o creatività particolari. Ad esempio, gli algoritmi a cui siamo abituati dalle scuole elementari descrivono come fare addizioni, moltiplicazioni e divisioni. Fino all’inizio del ventesimo secolo, i matematici si basavano su nozioni informali di computazione e algoritmo senza tentare nulla di simile a un’analisi formale. Gli sviluppi nelle basi della matematica alla fine spinsero i logici a perseguire un trattamento più sistematico. L’imprescindibile paper di Alan Turing “On Computable Numbers, With an Application to the Entscheidungsproblem” (Turing 1936) ha offerto l’analisi che si è dimostrata più influente.

Una macchina di Turing è un modello astratto di un dispositivo informatico idealizzato con tempo e spazio di archiviazione illimitati a sua disposizione. Il dispositivo manipola i simboli, proprio come un agente informatico umano manipola i segni di matita su carta durante la computazione aritmetica. Turing dice molto poco sulla natura dei simboli. Sostiene che i simboli primitivi siano tratti da un alfabeto finito. Assume inoltre che i simboli possano essere inscritti o cancellati in “indirizzi di memoria”. Il modello di Turing funziona nel modo seguente:

  • Ci sono infiniti indirizzi di memoria, disposti in una struttura lineare. Metaforicamente, questi indirizzi di memoria sono “celle” su un “nastro di carta” infinitamente lungo. Gli indirizzi di memoria potrebbero letteralmente essere realizzati in vari modi fisici (ad esempio, con dei chip di silicio).
  • C’è un processore centrale, che può accedere a una posizione di memoria alla volta. Metaforicamente, il processore centrale è uno “scanner” che si muove lungo il nastro di carta una “cella” alla volta.
  • Il processore centrale può entrare in un numero finito di stati della macchina .
  • Il processore centrale può eseguire quattro operazioni elementari: scrivere un simbolo in una posizione di memoria; cancellare un simbolo da una posizione di memoria; accedere alla posizione di memoria successiva nella matrice lineare (“spostarsi a destra sul nastro”); accedere alla posizione di memoria precedente nell’array lineare (“spostarsi a sinistra sul nastro”).
  • Quale operazione elementare esegue l’elaboratore centrale dipende interamente da due fatti: quale simbolo è attualmente inscritto nella posizione di memoria attuale; e dallo stato corrente della macchina dello scanner.
  • Una tavola della macchina determina quale operazione elementare esegue il processore centrale, dato il suo stato della macchina corrente e il simbolo a cui sta accedendo attualmente. La tavola della macchina determina anche come cambia lo stato della macchina del processore centrale, dati gli stessi fattori. Pertanto, la tavola della macchina racchiude un insieme finito di istruzioni meccaniche di routine che governano la computazione.

Turing traduce questa descrizione informale in un modello matematico rigoroso. Per maggiori dettagli, vedere la voce sulle macchine di Turing

Turing motiva poi il suo approccio riflettendo sugli agenti informatici umani idealizzati. Citando i limiti del nostro apparato percettivo e cognitivo, sostiene che qualsiasi algoritmo simbolico eseguito da un essere umano possa essere replicato da una macchina di Turing adeguata. Conclude che il formalismo della macchina di Turing, nonostante la sua estrema semplicità, è abbastanza potente da catturare tutte le procedure meccaniche eseguibili da un essere umano attraverso le configurazioni simboliche. Gli autori successivi, che hanno discusso questa tesi, sono stati quasi universalmente d’accordo.

La computazione di Turing è spesso descritta come digitale piuttosto che analogico . Non è sempre così chiaro che cosa significhi, ma l’idea di base è che la computazione opera su configurazioni discrete. In confronto, molti algoritmi storicamente importanti operano su configurazioni a variazione continua. Ad esempio, la geometria euclidea assegna un ruolo importante alle costruzioni con righello e compasso , che manipolano le forme geometriche. Per qualsiasi forma, se ne può trovare un’altra che differisce in misura arbitrariamente piccola. Le configurazioni simboliche manipolate da una macchina di Turing non differiscono in misura arbitrariamente piccola. Le macchine di Turing operano su stringhe discrete di elementi (cifre) tratte da un alfabeto finito. Una controversia ricorrente riguarda se il paradigma digitale sia adatto come modello per l’attività mentale o se sarebbe invece più adatto un paradigma analogico (MacLennan 2012; Piccinini e Bahar 2013).

Oltre a introdurre le sue macchine, Turing (1936) ha conseguito diversi risultati matematici fondamentali in cui esse sono state coinvolte. In particolare, ha dimostrato l’esistenza di una macchina di Turing universale (MTU). In parole povere, una MTU è una macchina di Turing che può imitare qualsiasi altra macchina di Turing. Si fornisce all’MTU un input simbolico che codifica la tavola della macchina per la macchina di Turing M . L’MTU replica il comportamento di M , eseguendo le istruzioni fornite dalla tavola della macchina di M . In questo senso, la MTU è un computer generico a scopo programmabile . Da una prima approssimazione, tutti i personal computer sono anche ad uso generale: possono imitare qualsiasi macchina di Turing, una volta che sono stati opportunamente programmati. La limitazione principale è che i computer fisici hanno una memoria finita, mentre una macchina di Turing ha una memoria illimitata. Più precisamente, quindi, un personal computer può imitare qualsiasi macchina di Turing fino a quando non esaurisce la sua limitata disponibilità di memoria.

La discussione di Turing ha contribuito a gettare le basi per l’informatica, che cerca di progettare, costruire e comprendere i sistemi informatici. Come sappiamo, gli informatici possono ora costruire macchine informatiche estremamente sofisticate. Tutte queste macchine implementano qualcosa di simile alla computazione di Turing, sebbene i dettagli differiscano dal modello semplificato che ha proposto .

2. Intelligenza artificiale

Rapidi progressi nell’informatica hanno spinto molti, compreso Turing, a riflettere sulla possibilità di costruire un computer in grado di pensare. L’intelligenza artificiale (AI) mira a costruire “macchine pensanti”. Più precisamente, mira a costruire macchine informatiche che eseguono compiti mentali fondamentali come il ragionamento, il processo decisionale, il problem-solving e così via. Nel corso degli anni ’50 e ’60, questo obiettivo ci concretizzò sempre più (Haugeland 1985).

Le prime ricerche sull’IA ponevano l’accento sulla logica. I ricercatori hanno cercato di “meccanizzare” il ragionamento deduttivo. Un famoso esempio fu il programma per computer Logic Theorist (Newell e Simon 1956), che ha dimostrato 38 dei primi 52 teoremi dei Principia Mathematica (Whitehead e Russell 1925). In un caso ha scoperto una dimostrazione più semplice di quella fornita nei Principia.

I primi successi di questo tipo stimolarono un enorme interesse dentro e fuori il mondo accademico. Molti ricercatori prevedevano che per giungere alle macchine intelligenti sarebbero serviti pochi anni. Ovviamente, queste previsioni non risultarono corrette. Tra noi non camminano ancora robot intelligenti. Anche i processi mentali di livello relativamente basso, come la percezione, superano di gran lunga le capacità degli attuali programmi per computer. Quando queste fiduciose previsioni delle macchine pensanti si rivelarono eccessivamente ottimistiche, molti osservatori persero interesse o conclusero che l’intelligenza artificiale fosse l’impresa di uno sciocco. Tuttavia, nei decenni si è assistito a graduali processi. Un successo sorprendente è stato quello di Deep Blue della IBM, che ha sconfitto il campione di scacchi Gary Kasparov nel 1997. Un altro grande successo è stato quello dell’auto senza conducente Stanley (Thrun, Montemerlo, Dahlkamp, ​​et al. 2006), che ha completato un percorso di 132 miglia nel deserto del Mojave, vincendo la grande sfida della Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) del 2005. Una storia di successo meno appariscente è il grande miglioramento degli algoritmi per il riconoscimento vocale.

Un problema che ha ostacolato i primi lavori nell’IA è l’incertezza . Quasi tutti i ragionamenti e il processo decisionale operano in condizioni di incertezza. Ad esempio, potresti dover decidere se andare a fare un picnic senza essere certo che pioverà. La teoria bayesiana delle decisioni è il modello matematico standard di inferenza e processo decisionale in condizioni di incertezza. L’incertezza è codificata attraverso la probabilità. Regole precise stabiliscono come aggiornare le probabilità alla luce di nuove prove e come selezionare le azioni alla luce delle probabilità e delle utilità. (Vedi le voci sul teorema di Bayes e le teorie normative della scelta razionale: utilità attesa  per i dettagli.) Negli anni ’80 e ’90, gli sviluppi tecnologici e concettuali hanno permesso lo sviluppo di programmi per computer efficienti che implementano o approssimano l’inferenza bayesiana in scenari realistici. Ne seguì un’esplosione di intelligenza artificiale bayesiana (Thrun, Burgard e Fox 2006), inclusi i già menzionati progressi nel riconoscimento vocale e nei veicoli senza conducente. Gli algoritmi trattabili che gestiscono l’incertezza sono un risultato importante dell’IA contemporanea (Murphy 2012) e forse facevano presagire progressi futuri ancora più impressionanti.

Alcuni filosofi insistono sul fatto che i computer, per quanto sofisticati, nel migliore dei casi arriveranno ad imitare il nostro pensiero, anziché replicarlo. Una simulazione al computer del tempo non fa piovere per davvero. Una simulazione di volo al computer non fa volare per davvero. Anche se un sistema informatico potesse simulare l’attività mentale, perché dovremmo sospettare che la costituirebbe per intero?

Turing (1950) anticipò queste preoccupazioni e cercò di attenuarle. Egli ha proposto uno scenario, ora detto Test di Turing , in cui si valuta se un interlocutore non visibile è un computer o un essere umano. Un computer supera il test di Turing se non si riesce a stabilire che si tratta di un computer. Turing ha proposto di abbandonare la domanda “Un computer è in grado di pensare?” dato che è irrimediabilmente vaga, sostituendola con “Un computer potrebbe superare il test di Turing?”. La discussione di Turing ha ricevuto notevole attenzione, dimostrandosi particolarmente influente all’interno del campo dell’IA. Ned Block (1981) ha offerto una critica influente. Egli sostiene che alcune macchine possibili superano il test di Turing anche se esse non si avvicinano al pensiero o all’intelligenza degli esseri umani. Vedi la voce sul test di Turing per la discussione dell’obiezione di Block e altri problemi che riguardano il test di Turing.

Per ulteriori informazioni sull’intelligenza artificiale, vedi voce sullla logica e l’intelligenza artificiale . Per molti più dettagli, si veda Russell e Norvig (2010) .

3. La teoria computazionale della mente classica

Warren McCulloch e Walter Pitts (1943) hanno suggerito per primi che qualcosa di simile alla macchina di Turing potrebbe fornire un buon modello per spiegare la mente. Negli anni ’60, la computazione di Turing divenne centrale per l’emergente iniziativa interdisciplinare delle scienze cognitive, che studiano la mente attingendo alla psicologia, all’informatica (in particolare all’IA), alla linguistica, alla filosofia, all’economia (in particolare la teoria dei giochi e l’economia comportamentale), all’antropologia e alle neuroscienze. L’etichetta “teoria computazionale della mente classica” (che abbrevieremo come TCMC) è ora abbastanza comune. Secondo la TCMC, la mente è un sistema computazionale simile per importanti aspetti a una macchina di Turing, e i cui processi mentali fondamentali (ad esempio, ragionamento, processo decisionale e problem-solving) sono calcoli simili in alcuni aspetti a quelli eseguiti da una macchina di Turing. Questa formulazione è, tuttavia, imprecisa. La TCMC può essere considerata al più come un insieme di teorie, piuttosto che come un’unica teoria con una singola definizione. [ 1 ]

Si usa descrivere la TCMC come se incarnasse la “metafora del computer”. Questa descrizione è fuorviante per due motivi.

In primo luogo, la TCMC si può formulare meglio descrivendo la mente come un “sistema informatico” o un “sistema computazionale” piuttosto che un “computer”. Come osserva David Chalmers (2011), descrivere un sistema come un “computer” suggerisce fortemente che il sistema è programmabile . Come nota anche Chalmers, non è necessario affermare che la mente è programmabile semplicemente perché la si considera come un sistema computazionale simile alle macchine di Turing. (La maggior parte delle macchine di Turing, infatti, non sono programmabili.) Pertanto, l’espressione “metafora del computer” suggerisce fortemente un impegno teorico non essenziale per la TCMC. Il punto qui non è solo terminologico. I critici della TCMC spesso obiettano che la mente non è un computer programmabile per scopi generali (Churchland, Koch e Sejnowski 1990). Siccome i computazionalisti classici non hanno bisogno di affermare (e di solito non lo fanno) che la mente è un computer programmabile per scopi generali, l’obiezione è mal indirizzata.

In secondo luogo, la TCMC non va intesa metaforicamente. La TCMC non sostiene semplicemente che la mente è come un sistema informatico. La TCMC sostiene che la mente è letteralmente un sistema informatico. Naturalmente, i sistemi informatici artificiali più familiari sono realizzati con chip di silicio o materiali simili, mentre il corpo umano è fatto di carne e sangue. Ma la TCMC sostiene che questa differenza nasconde una somiglianza più fondamentale, che possiamo comprendere con un modello computazionale simile alle macchine di Turing. Nell’offrire un tale modello, prescindiamo dai suoi dettagli a livello fisico. Otteniamo una descrizione computazionale astratta che potrebbe essere implementata fisicamente in diversi modi (ad esempio, attraverso chip di silicio, neuroni, pulegge o leve). La TCMC sostiene che un modello computazionale astratto offre una descrizione letteralmente corretta dei processi mentali fondamentali.

È comune riassumere la TCMC attraverso lo slogan “la mente è una macchina di Turing”. Questo slogan è anche un po’ fuorviante, perché nessuno considera il preciso formalismo di Turing un modello plausibile della nostra attività mentale. Il formalismo sembra troppo restrittivo per diversi motivi:

Le macchine di Turing eseguono calcoli simbolici puri. Gli input e gli output sono simboli inscritti negli indirizzi di memoria. Al contrario, la mente riceve input sensoriali (ad esempio, stimolazioni retiniche) e produce output motori (ad esempio, attivazioni muscolari). Una teoria completa deve descrivere come la computazione mentale si interfaccia agli input sensoriali e gli output motori.

  • Una macchina di Turing ha una capacità di memoria discreta infinita. I sistemi biologici ordinari hanno una capacità di memoria finita. Un modello psicologico plausibile deve sostituire la memoria infinita con una memoria ampia, ma finita.
  • I computer moderni hanno una RAM : indirizzi di memoria a cui il processore centrale può accedere direttamente. La memoria della macchina di Turing non è indirizzabile. Il processore centrale può accedere a un indirizzo solo accedendo sequenzialmente a quelli intermedi. La computazione senza memoria indirizzabile è irrimediabilmente inefficiente. Per questo motivo, C.R. Gallistel e Adam King (2009) sostengono che la memoria indirizzabile fornisca un modello migliore della mente rispetto alla memoria non indirizzabile.
  • Una macchina di Turing ha un processore centrale che opera in serie , eseguendo un’istruzione alla volta. Altri formalismi computazionali indeboliscono questa ipotesi, consentendo più unità di elaborazione che operano in parallelo. I computazionalisti classici possono accettare che vengano svolti calcoli paralleli (Fodor e Pylyshyn 1988; Gallistel e King 2009: 174). Vedere Gandy (1980) e Sieg (2009) per i trattamenti matematici generali che comprendono sia la computazione seriale che quello in parallelo.
  • La computazione di Turing è deterministica : lo stato computazionale totale determina lo stato computazionale successivo. Si potrebbe invece consentire calcoli stocastici . In un modello stocastico, lo stato corrente non impone un unico uno stato successivo. Piuttosto, c’è una certa probabilità che la macchina passi da uno stato all’altro.

La TCMC afferma che l’attività mentale è “computazione simile alle macchine di Turing”, che consente queste e altre divergenze rispetto allo stesso formalismo di Turing .

Hilary Putnam (1967) ha introdotto la TCMC in filosofia. Ha messo a confronto la sua posizione con il comportamentismo logico e la teoria dell’identità di tipo . Ogni posizione pretende di rivelare la natura degli stati mentali, inclusi gli atteggiamenti proposizionali (come le credenze), sensazioni (come il dolore) ed emozioni (come la paura). Secondo il comportamentismo logico, gli stati mentali sono disposizioni comportamentali. Secondo la teoria dell’identità di tipo, gli stati mentali sono stati cerebrali. Putnam avanza al contrario una teoria funzionalista , in base alla quale gli stati mentali sono stati funzionali. Secondo il funzionalismo, un sistema ha una mente quando il sistema ha un’organizzazione funzionale adeguata. Gli stati mentali sono stati che svolgono ruoli appropriati nell’organizzazione funzionale del sistema. Ogni stato mentale è individuato in base alle sue interazioni con input sensoriali, output motorii e altri stati mentali.

Il funzionalismo offre notevoli vantaggi rispetto al comportamentismo logico e alla teoria dell’identità del tipo:

  • I comportamentisti vogliono associare ogni stato mentale a un modello caratteristico di comportamento – un compito che è senza speranze, perché gli stati mentali individuali di solito non hanno effetti comportamentali specifici. Il comportamento risulta quasi sempre da stati mentali distinti che operano insieme (ad esempio, una credenza e un desiderio). Il funzionalismo evita questa difficoltà individuando gli stati mentali attraverso relazioni caratteristiche non solo con input e comportamenti sensoriali, ma anche tra di essi.
  • I teorici dell’identità di tipo vogliono associare ogni stato mentale a uno stato fisico o neurofisiologico specifico. Putnam mette in dubbio questo progetto sostenendo che gli stati mentali sono realizzabili molteplicemente : lo stesso stato mentale può essere realizzato da diversi sistemi fisici, incluse non solo le creature terrestri, ma anche quelle ipotetiche (ad esempio, un marziano a base di silicio). Il funzionalismo è fatto su misura per adattarsi alla realizzabilità multipla. Secondo il funzionalismo, ciò che conta per il mentale è un modello di organizzazione, che potrebbe essere realizzato fisicamente in molti modi diversi. Si veda la voce sulla realizzabilità multipla per ulteriori discussioni su questo argomento.

Putnam difende una versione di funzionalismo ora detta “ funzionalismo della macchina ”. Egli pone l’enfasi sugli automi probabilistici , che sono simili alle macchine di Turing, tranne per il fatto che le transizioni tra gli stati computazionali sono stocastiche. Egli propone che l’attività mentale implementi un automa probabilistico e che particolari stati mentali non siano che stati macchina del processore centrale dell’automa. La tavola della macchina specifica un’organizzazione funzionale appropriata e specifica anche il ruolo che svolgono i singoli stati mentali all’interno di tale organizzazione funzionale. In questo modo, Putnam combina il funzionalismo con la TCMC.

Il funzionalismo della macchina deve far fronte diversi problemi. Un problema, evidenziato da Ned Block e Jerry Fodor (1972), riguarda la produttività del pensiero . Un essere umano normale può generare una serie di enunciati potenzialmente infinità. Il funzionalismo della macchina identifica gli stati mentali con gli stati macchina di un automa probabilistico. Poiché esiste un numero finito di stati macchina, non ve ne sono abbastanza perché si accoppino a uno a uno con i possibili stati mentali di un essere umano. Naturalmente, un essere umano in carne ed ossa prenderà in considerazione solo un numero limitato di proposizioni. Tuttavia, Block e Fodor sostengono che questa limitazione rifletta i limiti della durata della vita e della memoria, piuttosto che (ad esempio) qualche legge psicologica che restringa la classe delle proposizioni enunciabili dagli esseri umani. Un automa probabilistico è dotato di tempo e capacità di memoria illimitati, ma ha ancora solo un numero limitato di stati macchina. Apparentemente, quindi, il funzionalismo della macchina identifica i limiti della cognizione umana nel luogo sbagliato.

Un altro problema del funzionalismo della macchina, evidenziato anche da Block e Fodor (1972), riguarda la sistematicità del pensiero . La capacità di enunciare una proposizione è correlata alla capacità di pensare ad altre proposizioni. Ad esempio, se qualcuno pensa “ Giovanni ama Maria ” può anche pensare “ Maria ama Giovanni ”. Sembrano dunque esserci relazioni sistematiche tra gli stati mentali. Una buona teoria dovrebbe rendere conto di queste relazioni sistematiche. Eppure, il funzionalismo della macchina identifica gli stati mentali con stati macchina non strutturati, che sono privi delle relazioni sistematiche richieste. Per questo motivo, il funzionalismo della macchina non spiega la sistematicità del pensiero. In risposta a questa obiezione, i funzionalisti della macchina potrebbero negare di essere obbligati a spiegare la sistematicità del pensiero. Tuttavia, l’obiezione suggerisce che il funzionalismo della macchina trascuri le caratteristiche essenziali della mente umana. Una teoria più efficiente dovrebbe mirare a spiegare queste caratteristiche in modo rigoroso.

Sebbene le obiezioni sulla produttività e sulla sistematicità al funzionalismo della macchina forse non siano decisive, spingono fortemente affinché si cerchi una versione migliorata della TCMC. Si veda Block (1978) per ulteriori problemi relativi al funzionalismo e al funzionalismo della macchina più in generale .

3.2 Teoria rappresentazionale della mente

Fodor (1975, 1981, 1987, 1990, 1994, 2008) sostiene una versione della TCMC che rende conto della sistematicità e alla produttività in modo molto più soddisfacente. Egli sposta l’attenzione sui simboli utilizzati durante la computazione da parte delle macchine di Turing.

Una vecchia teoria, che risale almeno alla Summa Logicae di Guglielmo d’Ockham, sostiene che il pensiero si manifesti in un linguaggio del pensiero (a volte chiamato “Mentalese”). Fodor riprende questa teoria. Egli postula un sistema di rappresentazioni mentali, comprendente sia le rappresentazioni primitive che le rappresentazioni complesse formate da rappresentazioni primitive. Ad esempio, le parole primitive in Mentalese “GIOVANNI”, “MARIA” e “AMA” possono combinarsi per formare la frase in Mentalese “GIOVANNI AMA MARIA”. Il Mentalese è una lingua composizionale: il significato di un’espressione complessa in Mentalese è una funzione dei significati delle sue parti e del modo in cui queste parti sono combinate tra di loro. Gli atteggiamenti proposizionali sono relazioni con i simboli del Mentalese. Fodor chiama questa visione “ teoria rappresentazionale della mente” (TRM). Combinando la TRM con la TCMC, Egli sostiene che l’attività mentale comporti computare simboli del linguaggio del pensiero nello stile delle macchine di Turing. La compitazione mentale immagazzina i simboli mentali negli indirizzi di memoria, manipolando quei simboli in accordo con regole meccaniche.

Una delle virtù principali della TRM è la facilità con cui riesce a spiegare produttività e sistematicità del pensiero:

Produttività : la TRM postula un insieme finito di espressioni Mentalesi primitive, combinabili in una potenziale infinità di espressioni Mentalesi complesse. Un pensatore che abbia accesso al vocabolario Mentalese primitivo e ai dispositivi di composizione Mentalese potrebbe costruire un’infinità di espressioni in Mentalese. Potrebbe dunque generare infiniti atteggiamenti proposizionali (tralasciando i limiti di tempo e di memoria).

Sistematicità : secondo la TRM, esistono delle relazioni sistematiche tra quali atteggiamenti proposizionali possono essere pensati dal soggetto. Ad esempio, supponiamo che io possa pensare che John ama Mary. Secondo la TRM, il fatto che io mi comporto così implica che mi trovo in una relazione R con la frase in Mentalese “GIOVANNI AMA MARIA”, composta dalle parole in Mentalese GIOVANNI, AMA e MARIA combinate nel modo giusto. Se ho questa capacità, allora posso anche stare in relazione R con la frase in Mentalese “MARIA AMA GIOVANNI”, pensando così che Maria ama Giovanni. Quindi la capacità di pensare che Giovanni ama Maria è sistematicamente correlata alla capacità di pensare che Maria ama Giovanni.

Trattando gli atteggiamenti proposizionali come relazioni con simboli mentali complessi, la TRM spiega sia la produttività che la sistematicità del pensiero.

TCMC + TRM differisce dal funzionalismo della macchina per molti altri aspetti. In primis, il funzionalismo della macchina è una teoria degli stati mentali in generale , mentre la TRM è solo una teoria degli atteggiamenti proposizionali. In secundis, i sostenitori di TCMC+ TRM non hanno bisogno di dire che gli atteggiamenti proposizionali sono individuati dal loro ruolo funzionale. Come osserva Fodor (2000: 105, nota 4), dobbiamo distinguere il computazionalismo (secondo cui i processi mentali sono computazionali) dal funzionalismo (per cui gli stati mentali sono stati funzionali). Il funzionalismo della macchina sostiene entrambe le teorie. TCMC+ TRM approva solo il primo. Sfortunatamente, molti filosofi credono ancora erroneamente che il computazionalismo implichi un approccio funzionalista per gli atteggiamenti proposizionali (vedi Piccinini 2004 per tale discussione).

La discussione filosofica dell’TRM tende a concentrarsi principalmente sul pensiero umano di alto livello , in particolare sulla credenza e sul desiderio. Tuttavia, TCMC+ TRM è applicabile a una gamma molto più ampia di stati e processi mentali. Molti scienziati cognitivi la applicano ad animali diversi dagli esseri umani. Ad esempio, Gallistel e King (2009) la applicano a determinati classi di invertebrati (ad esempio, la navigazione spaziale delle api). Anche stringendo il campo agli esseri umani, è possibile applicare TCMC+ TRM all’elaborazione sub-personale . Fodor (1983) sostiene che la percezione coinvolge un “modulo” sub-personale che converte l’input retinico in simboli mentali e quindi esegue calcoli su quei simboli. Pertanto, parlare di un linguaggio del pensiero è potenzialmente fuorviante, poiché suggerisce una restrizione inesistente all’attività mentale di livello superiore.

Potenzialmente fuorviante è anche la descrizione del Mentalese come linguaggio, il che suggerisce che tutti i simboli Mentalesi assomigliano a espressioni del linguaggio naturale. Molti filosofi, compreso Fodor, a volte sembrano sostenere questa posizione. Tuttavia, ci sono possibili formati non proposizionali per i simboli Mentalesi. I sostenitori di TCMC+ TRM possono adottare una linea pluralistica, consentendo alla computazione mentale di operare su elementi simili a immagini, mappe, diagrammi o altre rappresentazioni non proposizionali (Johnson-Laird 2004: 187; McDermott 2001: 69; Pinker 2005: 7; Sloman 1978: 144–176). La linea pluralistica sembra particolarmente plausibile se applicata ai processi sub-personali (come la percezione) e agli animali diversi dagli esseri umani. Michael Rescorla (2009a e b) esamina la ricerca sulle mappe cognitive (Tolman 1948; O’Keefe e Nadel 1978; Gallistel 1990), suggerendo che alcuni animali possono spostarsi per mezzo di calcoli su rappresentazioni mentali più simili alle mappe che agli enunciati. Elisabeth Camp (2009), citando la ricerca sull’interazione sociale del babbuino (Cheney e Seyfarth 2007), sostiene che i babbuini possano codificare relazioni di dominio sociale attraverso rappresentazioni non-sentenziali strutturate ad albero.

TCMC+ TRM è schematico. Per completare lo schema, è necessario fornire modelli computazionali dettagliati di specifici processi mentali. Un modello completo dovrebbe:

  • descrivere i simboli mentali manipolati dal processo;
  • isolare le operazioni elementari che manipolano i simboli (ad esempio, iscrivere un simbolo in un indirizzo di memoria);
  • delineare regole meccaniche che disciplinano l’applicazione delle operazioni elementari.

Fornendo un modello computazionale dettagliato, scomponiamo un processo mentale complesso in una serie di operazioni elementari governate da precise istruzioni abitudinarie.

TCMC+ TRM rimane neutrale nel dibattito tradizionale tra fisicalismo e dualismo delle sostanze. Un modello di macchina di Turing procede a un livello molto astratto, senza dire se i calcoli mentali siano implementati da una sostanza fisica o una sostanza cartesiana (Block 1983: 522). In pratica, tutti i sostenitori di TCMC+ TRM abbracciano una visione ampiamente fisicalista. Essi sostengono che i calcoli mentali non siano implementati dalla sostanza cartesiana ma piuttosto dal cervello. Da questo punto di vista, i simboli mentali sono realizzati da stati neurali e le operazioni di computazione sui simboli mentali sono realizzate da processi neurali. In definitiva, i fisicalisti sostenitori di TCMC+ TRM devono produrre teorie empiricamente confermate che spieghino esattamente come l’attività neurale implementa nella computazione di una macchina di Turing. Come sottolineano Gallistel e King (2009), attualmente non disponiamo di tali teorie, sebbene per alcune speculazioni si possano vedere Zylberberg, Dehaene, Roelfsema e Sigman (2011).

Fodor (1975) propone la TCMC+ TRM come base per la scienza cognitiva. Discute i fenomeni mentali come il processo decisionale, la percezione e l’elaborazione linguistica. In ciascuno di questi casi, egli sostiene, le nostre migliori teorie scientifiche postulano l’esistenza di computazioni in stile Turing su rappresentazioni mentali. Infatti, sostiene che le nostre uniche teorie plausibili hanno questa forma. Conclude che TCMC+ TRM è “l’unica opzione disponibile”. Molti scienziati cognitivi sostengono idee simili. C.R. Gallistel e Adam King (2009), Philip Johnson-Laird (1988), Allen Newell e Herbert Simon (1976) e Zenon Pylyshyn (1984) sostengono tutti che la computazione alla Turing sui simboli mentali sia la base migliore per una teorizzazione scientifica della mente .

4. Reti neurali

Negli anni Ottanta, il connessionismo è emerso come antagonista principale del computazionalismo classico. Il punto di partenza dei connessionisti è la neurofisiologia più che la logica o l’informatica; i loro modelli computazionali, le reti neurali , sono profondamente differenti rispetto a quelli proposti da Turing. Una rete neurale è un insieme di nodi interconnessi, che cadono sotto tre categorie: input , output e nodi nascosti (di mediazione tra i primi due). Ciascuno di essi presenta dei valori di attivazione, espressi da numeri reali, nonché delle connessioni ponderate con altri nodi, a loro volta descritte da numeri reali. L’attivazione dei nodi di input è esogena: è data dagli input della computazione. L’ input totale di attivazione di un nodo nascosto o di output è la somma ponderata delle attivazioni dei nodi che vi si basano. Insomma, l’attivazione di un nodo nascosto o di output è una funzione del suo input totale di attivazione, funzione che varia a seconda della rete. Nella computazione di una rete neurale, onde di attivazione si propagano dai nodi di input ai nodi di output secondo le connessioni ponderate tra i vari nodi.

In una rete feedforward , le connessioni ponderate vanno in una sola direzione. Le reti ricorrenti possiedono circoli di feedback in cui le connessioni mediate dai nodi nascosti tornano agli stessi nodi nascosti. Quest’ultimo tipo di struttura è matematicamente più complesso da rendere delle prime. Tuttavia, sono cruciali per esprimere vari fenomeni psicologici, in particolare quelli che descrivono un certo tipo di memoria (Elman 1990).

I pesi in una rete neurale sono tipicamente mutevoli, evolvendosi in accordo con un algoritmo di apprendimento . Nella letteratura si trovano vari algoritmi di apprendimento, ma l’idea di base è di solito quella di regolare il peso delle connessioni in modo che gli output effettivi si avvicinino gradualmente agli output obiettivo che ci si aspetterebbe per i relativi input. La retropropagazione di errore ne è un esempio ampiamente utilizzato (Rumelhart, Hinton e Williams 1986).

Il connessionismo risale a McCulloch e Pitts (1943), che hanno studiato le reti di operatori logici interconnessi (ad esempio, E ed O). Una rete di operatori logici può essere descritta come una rete neurale, con attivazioni limitate a due valori (0 e 1) e funzioni di attivazione date dalle consuete funzioni di verità. McCulloch e Pitts hanno presentato i loro operatori come modelli idealizzati di singoli neuroni. I loro studi esercitarono una profonda influenza sull’informatica (von Neumann 1945), tant’è che i moderni computer digitali altro non sono che reti di operatori logici. All’interno delle scienze cognitive, tuttavia, i ricercatori si concentrano oggi di solito su strutture i cui elementi sono più simili ai neuroni. In particolare, i connessionisti moderni danno più peso a reti neurali analogiche i cui nodi assumono valori di attivazione continui anziché discreti. Alcuni autori usano addirittura l’espressione “rete neurale” esclusivamente per riferirsi a questo tipo di architettura.

Le reti neurali hanno ricevuto un’attenzione relativamente scarsa da parte degli scienziati cognitivi durante gli anni Sessanta e Settanta, quando i modelli in stile Turing dominavano il dibattito. Gli anni Ottanta hanno visto un’enorme rinascita dell’interesse per le reti neurali, specialmente per le reti neurali analogiche, con il Parallel Distributed Processing , opera in due volumi (Rumelhart, McClelland, e il gruppo di ricerca PDP, 1986; McClelland, Rumelhart, e il gruppo di ricerca PDP, 1987), come loro manifesto. I ricercatori hanno nel tempo costruito modelli connessionisti di diversi fenomeni: riconoscimento degli oggetti, percezione e comprensione del linguaggio naturale, sviluppo cognitivo, etc. Colpiti dal connessionismo, molti studiosi hanno dovuto concludere che la TCCM+TRM non era più l’unica alternativa possibile.

Negli anni 2010, una classe di modelli computazionali noti come reti neurali profonde è diventata piuttosto popolare (Krizhevsky, Sutskever e Hinton 2012; LeCun, Bengio e Hinton 2015). Questi modelli sono reti neurali con più strati di nodi nascosti (a volte centinaia). Reti neurali profonde addestrate su grandi volumi di dati attraverso un certo algoritmo di apprendimento (di solito di retropropagazione) hanno ottenuto un grande successo in molte aree dell’IA, tra cui il riconoscimento degli oggetti e il gioco strategico. Le reti neurali profonde sono ora ampiamente diffuse in commercio e sono al centro di un’ampia indagine sia all’interno del mondo accademico che dell’industria. Non mancano ricercatori che hanno anche iniziato a utilizzarle per modellare la mente (ad esempio Marblestone, Wayne e Kording 2016; Kriegeskorte 2015).

Per una descrizione dettagliata delle reti neurali, si veda Haykin (2008). Per un’introduzione base, focalizzata sulle applicazioni psicologiche, si veda Marcus (2001). Per un’introduzione filosofica alle reti neurali profonde, si veda Buckner (2019) .

Le reti neurali sono a prima vista molto diverse dai modelli più classici (come quelli di Turing). Nonostante ciò, il computazionalismo classico e questa famiglia di modelli non si escludono a vicenda:

  • Una rete neurale può essere integrata in un modello classico . Di fatto, ogni rete neurale mai costruita fisicamente è stata riprodotta su un computer digitale.
  • Un modello classico può essere integrato in una rete neurale . I computer digitali moderni integrano modelli computazionali di Turing in reti di operatori logici. Viceversa, i primi possono essere riprodotti con reti neurali ricorrenti analogiche con valori di attivazione continui (Graves, Wayne, e Danihelka 2014, altre fonti online; Siegelmann e Sontag 1991; Siegelmann e Sontag 1995).

Sebbene alcuni ricercatori suggeriscano una fondamentale opposizione tra il computazionalismo classico e il computazionalismo con reti neurali, sembra più accurato identificare due famiglie di modelli che talvolta si sovrappongono (cfr. Boden 1991; Piccinini 2008b). A questo proposito, vale anche la pena di notare che entrambe hanno la loro origine comune nel lavoro di McCulloch e Pitts.

I filosofi spesso affermano che il computazionalismo classico consiste nella “manipolazione di simboli secondo regole”, mentre il computazionalismo connessionista non è simbolico. L’immagine intuitiva è che l’”informazione” nelle reti neurali sia distribuita globalmente attraverso le interazioni e le attivazioni, anziché concentrata in simboli localizzati. Tuttavia, la nozione stessa di “simbolo” richiede una spiegazione, per cui spesso non è chiaro cosa i teorici considerino necessario per descrivere la computazione come simbolico o non simbolico. Come accennato al §1, il formalismo di Turing pone pochissime condizioni ai propri “simboli”. Per quanto riguarda i simboli primitivi, Turing presuppone che ce ne siano un numero finito e che possano essere espressi in supporti di memoria riscrivibili. Anche le reti neurali possono manipolare simboli che soddisfano queste due condizioni: come si è appena detto, un modello in stile Turing è integrabile in una rete neurale.

Molti dibattiti tra simbolismo e non-simbolismo utilizzano una nozione più robusta di “simbolo”. Nell’accezione più forte, un simbolo è ciò che rappresenta un argomento. Quindi, qualcosa è un simbolo solo se ha proprietà semantiche o rappresentative. Se utilizziamo questa nozione più robusta di simbolo, allora la distinzione tra simbolismo e non-simbolismo taglia trasversalmente la distinzione tra la computazione in stile Turing e la computazione in rete neurale. Una macchina di Turing non ha bisogno di utilizzare simboli in un’accezione così forte. Per quanto riguarda il formalismo di Turing, tali elementi non necessitano di proprietà rappresentazionali (Chalmers 2011). Viceversa, una rete neurale può manipolare simboli con proprietà rappresentazionali. Di fatto, una rete neurale analogica può operare anche su simboli che hanno una sintassi e una semantica combinatoria (Horgan e Tienson 1996; Marcus 2001).

Seguendo Steven Pinker e Alan Prince (1988), possiamo distinguere tra connessionismo eliminativista e connessionismo implementazionista .

I connessionisti eliminativisti presentano il connessionismo come rivale del computazionalismo classico. Sostengono che il formalismo di Turing non spiega i fenomeni psicologici. Spesso, anche se non necessariamente, cercano di far rivivere la tradizione associazionista in psicologia, una tradizione che la TCCM aveva avversato duramente. Inoltre, spesso si pongono contro la linguistica mentalista e nativista di Noam Chomsky (1965). Manifestano solitamente una palese ostilità alla nozione stessa di rappresentazione mentale. Ma la caratteristica che definisce il connessionismo eliminativista è che utilizza le reti neurali come sostituti dei modelli di Turing: da questa prospettiva, l’attività computazionale della mente viene definita in modo radicalmente diverso rispetto a una macchina di Turing. Alcuni autori sposano esplicitamente il connessionismo eliminativista (Churchland 1989; Rumelhart e McClelland 1986; Horgan e Tienson 1996), e molti altri vi si avvicinano.

Il connessionismo implementazionista è una posizione più ecumenica. Riconosce un ruolo importante sia ai modelli di Turing che alle reti neurali, che funzionerebbero in armonia su diversi livelli di descrizione (Marcus 2001; Smolensky 1988). I primi funzionano a livello generale, i secondi a livello particolare. La rete neurale serve a spiegare come il cervello integri modelli di Turing, mentre la descrizione in termini di operatori logici serve a spiegare come un computer esegue un programma in un linguaggio di ordine superiore .

Il connessionismo suscita interessi in molti ricercatori per l’analogia che c’è tra le reti neurali e il cervello. I nodi sembrano analoghi ai neuroni, mentre le loro connessioni alle sinapsi. Tale modellazione appare quindi più “biologicamente plausibile” rispetto alla visione classica. Secondo i sostenitori di questa prospettiva, una ricostruzione connessionista di un fenomeno psicologico catturerebbe (in modo idealizzato) il modo in cui i neuroni interconnessi genererebbero il fenomeno.

Quando si valuta l’argomento della plausibilità biologica, si dovrebbe tuttavia riconoscere che le reti neurali differiscono in modo sostanziale dall’effettiva attività cerebrale. Molte reti che figurano in modo prominente negli scritti connessionisti non sono in effetti così biologicamente plausibili (Bechtel e Abrahamsen 2002: 341-343; Bermúdez 2010: 237-239; Clark 2014: 87-89; Harnish 2002: 359-362). Alcuni esempi di quanto detto:

  • I neuroni veri sono molto più eterogenei dei nodi delle reti neurali solite, che sono sostanzialmente intercambiabili.
  • I neuroni veri generano come output dei picchi discreti di potenziale di attivazione, laddove i nodi di molti modelli di reti neurali, incluse le reti neurali profonde, lavorano con output continui.
  • L’algoritmo di retropropagazione dell’errore richiede che i pesi dei nodi possano variare tra lo stato eccitato e lo stato inibito, laddove le sinapsi reali non prevedono una simile funzione (Crick e Asanuma 1986). Inoltre, l’algoritmo assume che lo stato-obiettivo sia immesso dall’esterno dagli autori del modello, che conoscono già la risposta desiderata . L’apprendimento è supervisionato . Nei sistemi biologici reali non esiste in quasi nessun caso qualcosa come un processo di apprendimento supervisionato da agenti esterni.

Esistono tuttavia alcune reti neurali che sono più realistiche dal punto di vista biologico (Buckner and Garson 2019; Illing, Gerstner, eBrea 2019). Per esempio, alcuni modelli rimpiazzano l’algoritmo di retropropagazione con altri procedimenti, tra cui l’apprendimento con rinforzo (Pozzi, Bohté e Roelfsema 2019, altre risorse online) o l’apprendimento non-supervisionato (Krotov e Hopfield 2019). Ci sono anche delle reti neurali che generano come output picchi discreti di attività che sono analoghi al funzionamento dei neuroni nel cervello (Maass 1996; Buesing, Bill, Nessler e Maass 2011).

Anche quando una rete neurale non è biologicamente plausibile, può comunque essere più plausibile dei modelli classici. Le prime sembrano infatti certamente più vicine, sia nei dettagli tecnici che nella sostanza, alla descrizione neurofisiologica del nostro cervello, rispetto ai modelli di Turing. Molti scienziati cognitivi temono che la TCCM rifletta un tentativo maldestro di imporre al cervello l’architettura dei computer odierni. Alcuni dubitano che il cervello preveda qualcosa di simile alla computazione digitale, cioè la computazione su configurazioni discrete di cifre (Piccinini e Bahar 2013). Altri dubitano che il cervello permetta una separazione netta, come per le macchine di Turing, tra il processore centrale e la memoria di lettura/scrittura (Dayan 2009). Le reti neurali sono migliori da entrambi i punti di vista, in quanto non richiedono né questo tipo di computazione né una distinzione funzionale così marcata.

I computazionalisti classici solitamente rispondono che è prematuro trarre conclusioni definitive sulla teoria basate sulla mera plausibilità biologica, data la scarsa comprensione della relazione tra livelli neurali, computazionali e cognitivi nella descrizione della nostra vita mentale (Gallistel e King 2009; Marcus 2001). Utilizzando tecniche di misurazione come le registrazioni cellulari e la risonanza magnetica funzionale (RMF), e attingendo a discipline molto diverse come la fisica, la biologia, l’intelligenza artificiale, la teoria dell’informazione, la statistica, la teoria dei grafici e la teoria dei sistemi dinamici, i neuroscienziati hanno accumulato una conoscenza sostanziale sul cervello a vari livelli di granularità (Zednik 2019): ora sappiamo molto sui singoli neuroni, su come i neuroni interagiscono all’interno delle popolazioni neurali, sulla localizzazione dell’attività mentale nelle regioni corticali (ad esempio la corteccia visiva) e sulle interazioni tra le regioni corticali stesse. Eppure, c’è ancora molto da imparare su come il tessuto neurale svolga i propri compiti: la percezione, il ragionamento, il processo decisionale, l’acquisizione del linguaggio e così via. Dato il nostro attuale stato di relativa ignoranza, sarebbe avventato insistere sul fatto che il cervello non operi in modo per nulla simile alla computazione di Turing.

I connessionisti offrono numerosi altri argomenti in favore dell’utilizzo dei propri modelli al posto di, o in aggiunta di, versioni classiche. Si veda la pagina sul connessionismo  per ulteriori dettagli. In questa pagina, saranno menzionati solamente altri due argomenti.

Il primo mette l’accento sulla nozione di apprendimento (Bechtel e Abrahamsen 2002: 51). Imparare dalla propria esperienza richiede l’utilizzo di una vasta gamma di fenomeni cognitivi. Molti modelli connessionisti sono esplicitamente progettati per analizzare questo tipo di operazione, sia attraverso la retropropagazione o altri algoritmi che incidono sulle interazioni ponderate tra i nodi della rete. Questo nasce dal fatto che tali autori spesso lamentano della scarsità di buoni modelli classici dell’apprendimento. I computazionalisti classici, dal canto loro, apportano le imperfezioni degli algoritmi testati dai loro avversari a questo scopo (per esempio, il bisogno di supervisione per la retropropagazione). Un punto fermo del computazionalismo classico è anche la teoria delle decisioni di Bayes, secondo cui l’apprendimento è un processo di aggiornamento probabilistico. I traguardi di questo modello matematico sono incarnati soprattutto dalla teoria cognitiva bayesiana , che parte proprio da tale struttura per spiegare la nostra vita mentale (Ma 2019). Questa impressiva sequenza di successi suggerisce che almeno alcuni processi mentali siano bayesiani o quasi-bayesiani (Rescorla 2020). Inoltre, i progressi menzionati in  §2  mostrano come la computazione classica possa eseguire quasi perfettamente l’aggiornamento probabilistico di Bayes in una serie di scenari realistici. Queste conferme sperimentali lasciano sperare ai sostenitori della TCCM di poter fornire un modello per molti casi di apprendimento.

Il secondo argomento si sofferma sulla velocità di computazione . I neuroni sono molto più lenti dei componenti a base di silicio dei computer digitali. Per questo motivo, non sono in grado di eseguire calcoli seriali abbastanza rapidamente da spiegare le rapide prestazioni umane nella percezione, nella comprensione linguistica, nei processi decisionali, etc. I connessionisti sostengono che l’unica soluzione possibile sia sostituire la computazione seriale con un’architettura computazionale “massicciamente parallela” – esattamente ciò che le reti neurali forniscono (Feldman e Ballard 1982; Rumelhart 1989). Tuttavia, questo argomento è efficace solo contro i computazionalisti classici che insistono appunto sull’elaborazione seriale. Come osservato nel §3, alcuni modelli di Turing lavorano invece sull’elaborazione parallela. Molti computazionalisti classici sarebbero felici di ascrivere alla mente una struttura di computazione “massicciamente parallela”. Detto questo, rimane tuttavia una questione importante che qualsiasi computazionalista – sia esso classico, connessionista o altro – deve affrontare: come fa un cervello costruito da neuroni relativamente lenti ad eseguire calcoli sofisticati così rapidamente? Né i computazionalisti classici né quelli connessionisti finora (2020) hanno risposto a questa domanda in modo soddisfacente (Gallistel e King 2009: 174 e 265) .

Fodor e Pylyshyn (1988) propongono una celebre critica del connessionismo eliminativista, sostenendo che i modelli del connessionismo non spieghino sistematicità e produttività, a meno di integrare anche degli elementi classici. Se questo è vero, il connessionismo non è un’alternativa fruibile ella TCCM. Il suo ruolo potrebbe al massimo essere quello di comporre una descrizione a livello analitico di certi fenomeni, di raccordo tra i modelli di Turing e il dato delle neuroscienze.

Questo argomento ha originato profonde discussioni. Alcuni sostengono che le reti neurali possono esibire sistematicità senza l’ausilio di alcun elemento classico (Horgan and Tienson 1996; Chalmers 1990; Smolensky 1991; van Gelder 1990). Altri ritengono che Fodor e Pylyshyn diano troppo peso alla sistematicità in sé (Johnson 2004) o alla produttività in sé (Rumelhart e McClelland 1986), specialmente per quanto riguarda gli animali non-umani (Dennett 1991). Tutte queste questioni sono state largamente sondate dalla letteratura. Per saperne di più, si vedano Bechtel e Abrahamsen (2002: 156–199), Bermúdez (2005: 244–278), Chalmers (1993), Clark (2014: 84–86), e le pagine di questa enciclopedia sull ’ipotesi del linguaggio del pensiero sul  connessionismo .

Gallistel e King (2009) avanzano un argomento simile al precedente, ma incentrato sulla produttività. Sottolineano in particolare la produttività della computazione mentale , in contrapposizione alla produttività degli stati mentali . Attraverso dettagliati studi di casi empirici, arrivano a ritenere che molti animali non umani possano estrarre, immagazzinare o recuperare immagini dettagliate dell’ambiente circostante. Per esempio, un uccello come la ghiandaia occidentale sa memorizzare dove tiene il cibo, che tipo di cibo ha nascosto in ogni luogo, quando l’ha fatto e se un nascondiglio è stato distrutto (Clayton, Emery e Dickinson 2006). Può inoltre accedere a queste informazioni e sfruttarle per calcolare le sue prossime azioni: sa calcolare se un alimento conservato da qualche parte è probabilmente scaduto; il percorso da un luogo a un altro; e così via. Il numero di operazioni possibili che un simile uccello può eseguire è, a tutti gli effetti, praticamente infinito.

La TCCM spiega la produttività della computazione mentale ponendo al centro delle operazioni un processore centrale che assegnerebbe ai simboli una posizione nella propria memoria di lettura/scrittura. Al bisogno, possono essere recuperate combinazioni arbitrarie e imprevedibili dei suoi contenuti. Al contrario, secondo Gallistel e King, il connessionismo non sa spiegare altrettanto facilmente tale produttività naturale. Benché i due in realtà non facciano chiaramente la distinzione tra connessionismo eliminativista e implementazionista, possiamo riassumere la loro posizione come segue:

  • Il connessionismo eliminativista non riesce a spiegare come gli organismi ricombinino i propri ricordi (per esempio, la posizione dei nascondigli) per calcolare le loro decisioni (per esempio, trovare il percorso da un nascondiglio ad un altro). Le combinazioni potenzialmente utili sono praticamente infinite, e non è possibile sapere a priori quale informazione servirà ai calcoli futuri. L’unica soluzione computazionalmente fattibile è l’assegnazione di simboli a posizioni in una memoria riscrivibile – soluzione che viene rifiutata dai sostenitori di questa prospettiva.
  • Il connessionismo implementazionista può assumere la presenza di simboli in una memoria di lettura/scrittura, purché istanziata da una rete neurale . Tuttavia, i meccanismi proposti dai connessionisti solitamente sono poco plausibili se applicati alla descrizione della memoria. Sono grossomodo tutti variazioni su un’unica idea di base: una rete neurale ricorrente che prevede azioni riflesse tra i vari nodi inserite in loop (Elman 1990). Ci sono varie ragioni del perché questo modello a loop di reverbero non è plausibile per spiegare la memoria a lungo termine. Per esempio, i disturbi presenti nel sistema nervoso servono a far sì che tutti i segnali si degradino rapidamente in pochi minuti. Finora, i connessionisti implementazionisti non sembrano aver offerto modelli per una buona memoria di lettura/scrittura. [ 2 ]

Gallistel e King concludono che la TCCM è molto migliore del connessionismo di entrambe le tipologie per spiegare tutta una serie di fenomeni cognitivi.

I critici di questo argomento sulla produttività muovono diversi tipi di critiche, che partono però principalmente dai casi empirici portati da Gallistel e King stessi. Peter Dayan (2009), John Donahoe (2010) e Christopher Mole (2014) sostengono che delle reti neurali biologicamente plausibili possono sistematizzare almeno parte di queste casistiche. Dayan e Donahoe invece argomentano che reti neurali senza nulla che faccia da memoria riscrivibile possano essere perfettamente accurate dal punto di vista empirico. Mole afferma che certe reti neurali empiricamente provate possano implementare i meccanismi di memoria richiesti da Gallistel e King. Questi dibattiti così fondamentali hanno sicuramente un ampio futuro .

Le neuroscienze computazionali descrivono il sistema nervoso attraverso modelli computazionali. Sebbene questa disciplina parta da strutture matematiche a livello dei singoli neuroni, il vero focus rimane sul sistema di neuroni interconnessi. Solitamente, le neuroscienze computazionali utilizzano reti neurali. In questo senso possono essere considerate una variante o uno sviluppo del connessionismo; tuttavia, però, la maggior parte dei neuroscienziati non si considerano connessionisti. Esistono infatti numerose differenze tra i due orientamenti:

  • Le reti neurali utilizzate dai neuroscienziati computazionali sono molto più biologicamente accurate rispetto a quelle dei connessionisti. La letteratura sul tema parla di range d’attivazione, potenziale d’attivazione, curve di armonizzazione, etc. Simili nozioni sono invece scarsamente contemplate nella ricerca in campo connessionista, o per lo meno in quella mappata dal lavoro di Rogers e McClelland (2014).
  • Le neuroscienze computazionali si fondano in larga misura sulla conoscenza scientifica del cervello, e per questo dà molta importanza al dato neurofisiologico (per esempio le impronte delle cellule). I connessionisti si discostano da questo patrimonio di partenza: le loro ricerche prendono spunto soprattutto da dati comportamentali, anche se contributi più recenti si stanno avvicinando maggiormente al mondo della neurofisiologia.
  • Le neuroscienze computazionali solitamente considerano i nodi individuali delle reti neurali come descrizioni idealizzate dei neuroni veri. I connessionisti invece li definiscono spesso come unità di elaborazione neuronali (Rogers and McClelland 2014), pur sorvolando sulle precise affinità con le analoghe entità neurofisiologiche.

Si potrebbe dire che le neuroscienze computazionali si occupano della computazione neurale (svolto cioè da sistemi di neuroni), mentre il connessionismo di modelli computazionali astratti ispirati all’attività del cervello. Tuttavia, il confine tra le due discipline è chiaramente labile. Per maggiori dettagli, si vedano Trappenberg (2010) o Miller (2018).

Il serio impegno filosofico con le neuroscienze risale almeno a Neurophilosophy (1986) di Patricia Churchland. Con lo sviluppo delle neuroscienze computazionali, Churchland divenne una dei suoi principali campioni filosofici (Churchland, Koch e Sejnowski 1990; Churchland e Sejnowski 1992). A lei si sono poi aggiunti Paul Churchland (1995, 2007) e altri (Eliasmith 2013; Eliasmith e Anderson 2003; Piccinini e Bahar 2013; Piccinini e Shagrir 2014). Tutti questi autori sostengono che le teorie computazionali dovrebbero iniziare con lo studio del cervello, non con macchine di Turing o altri strumenti inappropriati tratti dalla logica e dall’informatica. Sostengono anche che la modellazione delle reti neurali dovrebbe sforzarsi di ottenere un maggiore realismo biologico rispetto a quanto facciano i modelli connessionisti. Chris Eliasmith (2013) sviluppa questo punto di vista neuro-computazionale attraverso il suo Neural Engineering Framework , che integra le neuroscienze computazionali con strumenti tratti dalla teoria del controllo (Brogan 1990). Il suo obiettivo è quello di “decodificare” il cervello, costruendo reti neurali su larga scala e con accuratezza biologica per spiegare i fenomeni cognitivi.

Le neuroscienze computazionali si differenziano dalla TCCM e dal connessionismo per un aspetto cruciale: abbandonano l’idea di realizzabilità multipla. I neuroscienziati computazionali citano proprietà e processi neurofisiologici specifici, per cui i loro modelli non si applicano altrettanto bene a una creatura, per esempio, a base di silicio con connotati sufficiente diversi all’essere umano. Così facendo, le neuroscienze computazionali sacrificano una caratteristica fondamentale che ha attratto originariamente i filosofi verso il computazionalismo in generale. Un difensore coerente di questa prospettiva risponderebbe che questo sacrificio vale una maggiore comprensione delle basi neurofisiologiche dell’attività cerebrale. Ma molti computazionalisti temono che, concentrandosi troppo sui sostrati neurali, si rischi di perdere di vista la foresta cognitiva e focalizzarsi solamente sugli alberi neurali. Il dato neurofisiologico è sì importante, ma non c’è anche bisogno di un ulteriore livello astratto di descrizione computazionale che prescinda da tali dettagli? Gallistel e King (2009) sostengono che una fissazione miope su ciò che attualmente conosciamo del cervello ha portato le neuroscienze computazionali a concentrarsi su fenomeni cognitivi basilari e a corto raggio, come per esempio l’apprendimento delle dimensioni spaziali e temporali, la navigazione dell’ambiente, e così via. Allo stesso modo, Edelman (2014) lamenta come il Neural Engineering Framework sostituirebbe vere e proprie spiegazioni filosofiche con una bufera di nozioni neurofisiologiche.

In parte in risposta a tali preoccupazioni, alcuni ricercatori propongono delle neuroscienze computazionali cognitive integrate che connettano le teorie psicologiche con i meccanismi dell’attività neurale corrispondente (Naselaris et al. 2018; Kriegeskorte e Douglas 2018). L’idea di base è quella di utilizzare reti neurali per mostrare come i processi mentali siano istanziati nel cervello, offrendo così una descrizione cognitiva che rispetti sia la realizzabilità multipla che l’accuratezza in termini neurofisiologici. Un buon esempio di ciò è il recente lavoro sull’implementazione neurale dell’inferenza bayesiana (ad esempio, Pouget et al. 2013; Orhan e Ma 2017; Aitchison e Lengyel 2016). Tali ricercatori articolano modelli bayesiani (con realizzabilità multipla) di vari processi mentali; costruiscono reti neurali biologicamente plausibili che eseguono (quasi) perfettamente i calcoli bayesiani forniti; valutano quanto questi modelli di reti neurali si adattino bene al dato neurofisiologico.

Nonostante le differenze tra il connessionismo e le neuroscienze computazionali, questi due orientamenti si muovono su terreni molto simili. In particolare, entrambi si pongono parallelamente nel dibattito (di cui a §4.4 ) sulla sistematicità e produttività .]

5. Computazione e rappresentazione

I filosofi e gli scienziati cognitivi utilizzano il termine “rappresentazione” in modi diversi. In filosofia, l’uso dominante lo lega al tema dell’intenzionalità, cioè della direzionalità degli stati mentali. Solitamente, anzi, ci si riferisce all’intenzionalità proprio parlando di contenuto rappresentazionale . Uno stato mentale rappresentazionale ha un contenuto che rappresenta un determinato stato di cose, così che è possibile valutare se il mondo sia effettivamente così: lo stato diventa così giudicabile semanticamente secondo proprietà come verità, accuratezza, adeguatezza, etc.:

  • Le credenze hanno la caratteristica di essere vere o false. La mia credenza che Emmanuel Macron è francese è vera se Emmanuel Macron è francese, falsa altrimenti.
  • Le percezioni hanno la caratteristica di essere accurati o meno. La mia esperienza di una sfera rossa è accurata solamente se una sfera rossa è davanti a me.
  • I desideri hanno la caratteristica di essere soddisfatti o frustrati. Il mio desiderio di mangiare cioccolata è soddisfatto se mangio cioccolato, frustrato altrimenti.

Le credenze hanno quindi condizioni di verità (a cui sono vere), le percezioni condizioni di accuratezza (a cui sono accurate), i desideri condizioni di soddisfacimento (a cui sono soddisfatti).

Nella vita di tutti i giorni, spieghiamo e prevediamo il comportamento di qualcuno facendo riferimento a credenze, desideri e altri stati mentali rappresentazionali. Li identifichiamo proprio attraverso le loro proprietà rappresentazionali. Quando diciamo “Frank crede che Emmanuel Macron sia francese”, specifichiamo a che condizioni la sua credenza è vera (che Emmanuel Macron sia francese). Quando diciamo “Frank vuole mangiare cioccolata”, specifichiamo a che condizioni il desiderio di Frank è soddisfatto (che Frank mangi cioccolata). Questo per dire che la lettura più intuitive del nostro comportamento assegna un ruolo centrale alle descrizioni intenzionali , cioè a descrizioni che identificano gli stati mentali tramite le loro proprietà rappresentazionali. Se questa metodologia abbia senso anche per la psicologia a livello scientifico è una questione dibattuta nella filosofia della mente contemporanea.

Il realismo intenzionale è realismo a proposito delle rappresentazioni. Al minimo, questa posizione afferma che le proprietà rappresentazionali sono aspetti reali della nostra vita mentale. Solitamente, si spinge anche però a prescrivere che la psicologia scientifica faccia uso delle descrizioni intenzionali dei fenomeni che analizza. Il realismo intenzionale è una posizione molto popolare, sostenuta da Tyler Burge (2010a), Jerry Fodor (1987), Christopher Peacocke (1992, 1994), e altri. Un argomento importante a favore di questa tesi deriva dalla pratica delle scienze cognitive . La ragione sarebbe che le descrizioni intenzionali sono centrali a molte aree delle scienze cognitive, tra cui la psicologia percettiva e la linguistica. Per esempio, la prima descrive come l’attività percettiva trasformi gli input sensoriali (stimoli della retina) in immagini della geometria dell’ambiente circostante (rappresentazioni spaziali di forme, dimensioni e colori): gli stati percettivi vengono identificati mediante proprietà rappresentazionali (relazioni rappresentazionali a particolari forme, dimensioni e colori). Dietro una prospettiva latamente realista sulla conoscenza scientifica, i successi della psicologia percettiva sarebbero una prova del realismo intenzionale.

L’ eliminativismo è una forma forte di antirealismo sull’intenzionalità. Gli eliminativisti svalutano le descrizioni intenzionali in quanto vaghe, dipendenti dal contesto, soggettive, superficiali o comunque problematiche. Prescrivono dunque che la psicologia scientifica faccia a meno del contenuto rappresentazionale. Un precursore di questo orientamento è stato W. V. Quine con Word and Object (1960), che tenta di tradurre la psicologia intenzionale con un comportamentismo stimolo-risposta. Paul Churchland (1981), altro importante eliminativista, fa riferimento piuttosto alle neuroscienze.

Esistono varie posizioni intermedie tra il realismo intenzionale e l’eliminativismo. Daniel Dennett (1971, 1987) riconosce l’importanza predittiva dell’intenzionalità, ma dubita che gli stati mentali abbiano realmente proprietà rappresentazionali. Secondo lui, infatti, coloro che utilizzano descrizioni intenzionali non starebbero letteralmente affermando la presenza di tali proprietà; starebbero semplicemente adottando una “prospettiva intenzionale”. Donald Davidson (1980) sposa una simile posizione interpretivista . Mette l’accento sul ruolo centrale dell’intenzionalità nella vita pratica quotidiana di interpretare gli stati mentali e gli atti linguistici altrui; allo stesso tempo, tuttavia, si chiede se la visione psicologia che ne deriva possa avere lo status di una scienza vera e propria. Sia Davidson che Dennett sono realisti sugli stati mentali intenzionali. Nonostante ciò, entrambi sono spesso presentati come antirealisti (in particolare, Dennett viene spesso portato come esempio di strumentalismo sull’intenzionalità). Una ragione di questa lettura è l’ indeterminatezza dell’interpretazione . Si immagini che l’osservazione del comportamento del soggetto permetta due interpretazioni incompatibili dei suoi stati mentali. Davidson e Dennett, seguendo Quine, direbbero entrambi che non esiste un fatto determinante quale interpretazione sia quella giusta. Per lo meno, questa risposta denoterebbe una posizione meno che realista sull’intenzionalità.

I dibattiti sull’intenzionalità emergono spesso sulla filosofia intorno al computazionalismo. Vediamo alcune questioni .

I computazionalisti classici solitamente assumono ciò che potrebbe essere chiamata la concezione formo-sintattica della computazione (CFS). L’idea di fondo è che calcolare sia manipolare dei simboli mediante le loro proprietà formali anziché le loro proprietà semantiche.

La CFS deriva dalle scoperte della logica matematica del tardo Ottocento e del primo Novecento, ed in particolare dai contributi di George Boole e Gottlob Frege. Nei suoi  Begriffsschrift  (1879/1967), Frege ha presentato una completa formalizzazione della computazione decisionale. Per questo ha introdotto un linguaggio formale le cui espressioni linguistiche sono individuate in maniera non-semantica (per esempio, attraverso la loro forma geometrica). A prescindere dal fatto che il linguaggio possa essere stato creato con una particolare interpretazione come applicazione principale, i suoi elementi sono entità puramente sintattiche che possono essere trattate senza riferimento a proprietà semantiche come referenze o condizioni di verità. In particolare, si possono individuare regole di inferenza in termini formali e sintattici. Se fossero ben formate, queste dovrebbero servire l’interpretazione che abbiamo in mente, portandoci da premesse vere a conclusioni vere. Con la formalizzazione, Frege ha donato grande rigore alla logica. Ha così gettato le basi per numerosi sviluppi sia matematici che filosofici.

La formalizzazione gioca un ruolo fondamentale nell’informatica. È possibile programmare una macchina di Turing per manipolare espressioni linguistiche formali. Se il computer è programmato adeguatamente, le sue operazioni sintattiche corrisponderanno all’interpretazione semantica che abbiamo in mente. Per esempio, è possibile programmare un computer in modo che faccia seguire a premesse vere solamente conclusioni vere, oppure che aggiorni delle probabilità secondo la teoria delle decisioni di Bayes.

La CFS sostiene che ogni computazione tratti con entità formali e sintattiche, a prescindere da qualsiasi proprietà semantica. Le precise formulazioni di questa teoria possono variare. Si dice che la computazione sia “sensibile” rispetto alla sintassi ma non alla semantica, o che abbia “accesso” solo a proprietà sintattiche, o che operi “in virtù” di proprietà sintattiche ma non semantiche, o che sia influenzata da proprietà semantiche solo in quanto “mediate” da proprietà sintattiche. Non è sempre ben chiaro il significato di queste definizioni o se siano equivalenti tra di loro. Ma l’intuizione che sta dietro è che le proprietà sintattiche avrebbero una priorità causale/esplicativa sulle proprietà semantiche nello svolgimento di una computazione.

L’articolo di Fodor “Methodological Solipsism Considered as a Research Strategy in Cognitive Psychology” (1980) è un antesignano di questa visione. L’autore combina la CFS con la TCCM+TRM. Traccia un’analogia tra il “mentalese” e i linguaggi formali studiati dai logici: entrambi contengono elementi semplici e complessi individuati in maniera non-semantica. I simboli del “mentalese” hanno un’interpretazione semantica, ma questa non influisce (direttamente) sulla computazione mentale. Le proprietà formali di un simbolo, e non le sue proprietà semantiche, determinano come la computazione in corso lo manipolerà. In questo senso la mente sarebbe un “dispositivo sintattico”. Praticamente tutti i computazionalisti classici imitano Fodor e sposano la CFS.

Spesso sono i connessionisti a negare che le reti neurali manipolino degli elementi strutturati sintatticamente. Per questa ragione, molti esiterebbero ad accettare la CFS. Nonostante ciò, la maggior parte dei connessionisti sostiene una tesi generale della formalità : la computazione prescinde da proprietà semantiche. Anche questa tesi solleva le stesse questioni filosofiche sollevate dalla CFS; qui ci concentreremo solamente su quest’ultima, che è stata trattata più ampiamente in filosofia.

Fodor combina TCCM+TRM+CFS con il realismo intenzionale. Sostiene che la TCCM+TRM+CFS sostenga la nostra visione intuitiva dei fenomeni psicologici, traducendo le descrizioni in termini intenzionali in una scienza vera e propria. L’autore ha offerto un argomento per abduzione molto conosciuto a favore di questa tesi (1987: 18-20). La nostra attività mentale traccia le proprietà semantiche in modo incredibilmente coerente. Per esempio, una deduzione porta a conclusioni vere se le premesse sono vere. Come spiegare questo aspetto cruciale dell’attività mentale? La formalizzazione mostra che le manipolazioni sintattiche hanno il potere di tracciare le proprietà semantiche, e l’informatica mostra invece come costruire macchine per eseguire manipolazioni sintattiche a piacimento. Se trattiamo la mente come uno di questi dispositivi sintattici, possiamo capire come mai l’attività della mente sia coerente rispetto alla semantica. Inoltre, tale spiegazione non postula meccanismi causali totalmente diversi da quelli già accettati dalle scienze fisiche. Da qui la domanda fondamentale: com’è meccanicamente possibile la razionalità?

Stephen Stich (1983) e Hartry Field (2001) combinano la TCCM+CFS con l’eliminativismo. Sostengono che i modelli delle scienze cognitive dovrebbero descrivere la mente in termini formo-sintattici e facendo completamente a meno dell’intenzionalità. Accettano che gli stati mentali abbiano proprietà rappresentazionali, ma mettono in dubbio il loro ruolo nelle spiegazioni della psicologia scientifica. Perché incorporare una descrizione intenzionale in una trattazione formo-sintattica? Se la mente è un dispositivo sintattico, non è inutile fare riferimento al suo contenuto rappresentazionale?

A un certo punto della sua carriera, Putnam (1983: 139-154) ha combinato la TCCM+CFS con un interpretazionismo alla Davidson. Le scienze cognitive dovrebbero procedere secondo le linee suggerite da Stich e Field, delineando modelli computazionali sintattici puramente formali; questi coesisterebbero con la pratica interpretativa ordinaria, in cui si attribuiscono contenuti intenzionali agli stati mentali e agli atti linguistici. Quest’ultima è governata da principi olistici ed euristici, che tuttavia le impediscono di convertire la descrizione intenzionale in scienza rigorosa. Per Putnam, come per Field e Stich, la trattazione scientifica insomma avviene a livello sintattico formale piuttosto che a livello intenzionale.

La TCM+CFS viene attaccata da varie direzioni. Una critica riguarda la rilevanza causale del contenuto rappresentazionale (Block 1990; Figdor 2009; Kazez 1995). Intuitivamente parlando, i contenuti degli stati mentali sono causalmente rilevanti per l’attività e il comportamento mentale. Per esempio, il mio desiderio di bere acqua anziché succo d’arancia mi porta verso il lavandino piuttosto che verso il frigorifero. Il contenuto del mio desiderio ( che io beva acqua ) sembra giocare un ruolo causale importante nel plasmare il mio comportamento. Secondo Fodor (1990: 137-159), la TCCM+TRM+CFS accoglie tuttavia tali intuizioni. L’attività sintattica formale implementa l’attività mentale intenzionale, assicurando che gli stati mentali intenzionali interagiscano causalmente in accordo con il loro contenuto. Tuttavia, non è così chiaro come questa analisi assicuri la rilevanza causale dei contenuti in sé. La CFS afferma che la computazione mentale è “sensibile” alla sintassi ma non alla semantica. A seconda di come si legge il termine chiave “sensibile”, può sembrare che il contenuto rappresentazionale non abbia rilevanza causale, che sarebbe tutta assorbita dal comparto sintattico. Si consideri quest’analogia: quando un’auto va per la strada, l’ombra dell’auto segue dei motivi fissi; tuttavia, la posizione dell’ombra in un istante non la influenza in un secondo istante. Allo stesso modo, la TCCM+TRM+CFS spiegherebbe come l’attività mentale rispetti modelli stabili descritti in termini intenzionali, pur senza facendo riferimento causale al loro contenuto. Se la mente è davvero un dispositivo sintattico, allora il potere esplicativo va cercato a livello sintattico anziché semantico, il quale semplicemente ne “segue la traiettoria”. Apparentemente, quindi, la TCM+CFS incoraggia la conclusione che le proprietà rappresentazionali siano causalmente inerti. Questa tesi è compatibile con l’eliminativismo, ma solitamente non col realismo intenzionale.

Una seconda critica afferma che la trattazione formo-sintattica sarebbe speculazione antiscientifica. Tyler Burge (2010a, b, 2013: 479-480) sostiene che la descrizione sintattica dell’attività mentale non giocherebbe alcun ruolo rilevante nella maggior parte delle scienze cognitive, incluso lo studio del ragionamento teorico, del ragionamento pratico e della percezione. In ogni caso, secondo Burge, la scienza stessa utilizza una descrizione intenzionale anziché una descrizione formo-sintattica. Per esempio, la psicologia della percezione individua gli stati percettivi non tramite proprietà formali o sintattiche ma attraverso relazioni rappresentazionali con forme, dimensioni, colori nello spazio. Per comprendere a pieno questa obiezione è necessario distinguere tra descrizione formo-sintattica e descrizione neurofisiologica . Chiunque sarebbe d’accordo che la psicologia scientifica debba assegnare un’importanza fondamentale al dato neurofisiologico. Tuttavia, questo piano si distingue da quello sintattico in quanto il secondo si suppone abbia realizzabilità multipla sul primo. Il punto è quindi se la psicologia scientifica debba utilizzare descrizioni formo-sintattiche non-intenzionali con realizzabilità multipla in aggiunta ad una descrizione intenzionale e neurofisiologica .

5.2 Esternismo del contenuto mentale

L’importantissimo articolo “The Meaning of ‘Meaning’” (1975: 215–271) di Putnam contiene l’ esperimento mentale di Terra Gemella , in cui si chiede di immaginare un mondo in tutto e per tutto identico al nostro salvo per il fatto che l’H 2 O è sostituita da una sostanza XYZ ad essa qualitativamente simile, tranne che per la sua composizione chimica. Secondo Putnam, XYZ non è acqua, ma gli abitanti della Terra Gemella utilizzano la parola “acqua” per riferirsi a XYZ anziché alla ‘nostra’ acqua. Burge (1982) estende questa conclusione non solo alla referenza linguistica , ma anche al contenuto mentale . Burge sostiene infatti che gli abitanti della Terra Gemella possiedano stati mentali con contenuti differenti dai nostri. Per esempio, se Oscar sulla Terra pensa che l’acqua sia dissetante , il suo corrispettivo sulla Terra Gemella avrà un pensiero con un contenuto diverso, che l’acqua è dissetante . Burge conclude che il contenuto mentale non sopravviene sulla neurofisiologia, ma è individuato in parte da fattori esterni ai confini del soggetto, incluse le reazioni causali con l’ambiente. Questa posizione si dice esternismo sul contenuto mentale .

Tale prospettiva solleva importanti domande sull’utilità esplicativa che dovrebbe avere il contenuto rappresentazionale per la psicologia scientifica:

Argomento della causalità (Fodor 1987, 1991): come può il contenuto mentale avere un qualsiasi ruolo causale se non mediato dalla neurofisiologia del soggetto? Non esiste “azione psicologica a distanza”. Le differenze per quanto riguarda l’ambiente fisico impattano il comportamento del soggetto unicamente inducendo delle differenze in termini di stati cerebrali. Quindi, gli unici fattori causalmente rilevanti sono quelli che sopravvengono sulla neurofisiologia. Il contenuto individuate esternamente non ha rilevanza causale .

Argomento della spiegazione  (Stich 1983): una trattazione scientifica rigorosa non dovrebbe contemplare fattori esterni al soggetto. Una lettura intuitiva dei fenomeni psicologici potrebbe classificare diversi stati mentali in base al legame con l’ambiente circostante, ma la psicologia scientifica dovrebbe limitarsi integralmente a fattori che sopravvengono sulla neurofisiologia. Dovrebbe trattare Oscar e Oscar Gemello come cloni psicologici. [ 3 ]

Alcuni accolgono entrambi gli argomenti combinati. Entrambi puntano alla medesima conclusione: gli stati mentali individuati esternamente non hanno alcun legittimo ruolo causale per la psicologia scientifica. Stich (1983) così motiva il suo eliminativismo formo-sintattico.

Molti rispondono a queste obiezioni con l’ internalismo del contenuto . Laddove gli esternisti accettano un contenuto ampio (che non sopravviene sulla neurofisiologia del soggetto), essi invocano un contenuto stretto (sopravveniente). Tale sarebbe ciò che rimane del contenuto mentale pulito da qualsiasi fattore esterno. Ad un certo punto della sua carriera, Fodor (1981, 1987) ha sostenuto l’internalismo come una strategia fattibile per integrare la psicologia intenzionale con la TCCM+TRM+CFS. Ammettendo che il contenuto esteso della mente non dovrebbe rientrare nella psicologia scientifica, secondo lui il contenuto stretto dovrebbe giocare un ruolo causale centrale.

Gli internisti radicali affermano che tutto il contenuto è stretto. Una tipica analisi di questo genere sosterrebbe che Oscar non starebbe pensando all’acqua, ma a una categoria di sostanze più generale che sussumerebbe XYZ, così che sia lui che il suo gemello avrebbero stati mentali dallo stesso contenuto. Tim Crane (1991) e Gabriel Segal (2000) condividono questa lettura. Affermano che la lettura intuitiva dei fenomeni psicologici individuerebbero sempre le attitudini proposizionali strettamente . Un internalismo meno radicale consiglia di riconoscere l’esistenza sia di un contenuto stretto che di un contenuto ampio. La psicologia ingenua individuerebbe talvolta le attitudini proposizionali dunque in maniera estesa, ma rimarrebbe possibile definire una nozione di contenuto stretto che tornerebbe utile per scopi filosofici e scientifici importanti. Diversi internisti hanno proposto diversi concetti di contenuto stretto (Block 1986; Chalmers 2002; Cummins 1989; Fodor 1987; Lewis 1994; Loar 1988; Mendola 2008). Si veda la pagina  contenuto mentale ristretto  per una panoramica sulle opzioni più promettenti.

Gli esternisti lamentano che le teorie sul contenuto stretto sarebbero abbozzate, implausibili, inutili alla trattazione psicologica, o comunque discutibili (Burge 2007; Sawyer 2000; Stalnaker 1999). Inoltre, si pongono in opposizione agli argomenti internisti secondo cui la psicologia scientifica necessiterebbe di un contenuto ristretto:

Argomento della causalità : gli esternisti insistono che il contenuto esteso può avere rilevanza causale. La formulazione precisa di questa tesi varia, e spesso si intreccia con questioni complesse circa la causalità, i controfattuali e la metafisica della mente. Si veda la pagina  causalità mentale  per un’introduzione, e Burge (2007), Rescorla (2014a) e Yablo (1997, 2003) come teorie esternaliste.

Argomento della spiegazione : gli esternisti affermano che la trattazione psicologica potrebbe legittimamente classificare gli stati mentali mediante fattori che non riguardano la neurofisiologia del soggetto (Peacocke 1993; Shea, 2018). Burge osserva che spesso le scienze all’infuori della psicologia definiscono i propri concetti in modo relazionale , rispetto a fattori esterni. Per esempio, se un oggetto conta come un cuore dipende (grossomodo) dal fatto che la sua funzione biologica nel suo ambiente normale sia quella di pompare il sangue. La fisiologia, dunque, individua gli organi in modo relazionale. Perché non potrebbe fare altrettanto la psicologia con gli stati mentali? Per una nutrita discussione su questi temi, si vedano Burge (1986, 1989, 1995) e Fodor (1987, 1991).

Gli esternisti dubitano che ci siano buone ragioni per rimpiazzare o dover integrare il contenuto esteso con il contenuto stretto. Ritengono insomma che questa ricerca non caverebbe un ragno dal buco.

Burge (2007, 2010a) difende questa visione analizzando le attuali scienze cognitive. Sostiene che molti rami della psicologia scientifica (in particolare la psicologia percettiva) individuerebbero il contenuto mentale attraverso relazioni causali con l’ambiente esterno. Conclude che la pratica scientifica incarna una prospettiva esternista. Al contrario, sostiene, il contenuto ristretto è una fantasia filosofica priva di fondamento nella scienza attuale.

Supponiamo di abbandonare la ricerca del contenuto stretto. Quali sono le prospettive per combinare la TCM+CFS con la psicologia intenzionale esternista? L’opzione più promettente enfatizza i vari livelli di spiegazione . Possiamo dire che la psicologia intenzionale occupa un livello di spiegazione, mentre la psicologia computazionale formo-sintattica occupa un altro livello di spiegazione. Fodor sostiene questo approccio nelle sue opere più recenti (1994, 2008). Arriva infatti a rifiutare il contenuto stretto come vizioso. Suggerisce che i meccanismi sintattici formali attuino nient’altro che leggi psicologiche esternaliste: la computazione mentale manipola le espressioni in Mentalese in accordo con le loro proprietà sintattiche formali, e queste manipolazioni sintattiche formali assicurano che l’attività mentale rispetti certi pattern regolari che vengono definiti attraverso contenuti ampi.

Alla luce della distinzione tra internalismo ed esternismo, rivediamo ora la sfida eliminativista sollevata nel §5.1 : quale valore esplicativo aggiunge la descrizione intenzionale alla descrizione formale-sintattica? Gli internisti possono rispondere che adeguate manipolazioni sintattiche formali determinano e forse anche costituiscono dei contenuti stretti, così che la descrizione intenzionale internista sarebbe già implicita in una descrizione sintattica formale adeguata (cfr. Campo 2001: 75). Forse questa risposta implica il realismo intenzionale, forse no. Fondamentalmente, però, nessuna risposta di questo tipo è accettabile da parte degli esternisti del contenuto. La descrizione intenzionale esternista non è certamente implicita nella descrizione sintattica formale, perché si può tenere fissa la sintassi formale mentre variando l’estensione del contenuto. Pertanto, gli esternisti del contenuto che sposano la TCM+CFS hanno l’onere di spiegare perché integrare le descrizioni formo-sintattiche con delle descrizioni intenzionali. Una volta accettato che la computazione mentale è sensibile alla sintassi ma non alla semantica, è tutt’altro che chiaro quale sia la rilevanza esplicativa per il contenuto esteso. Fodor affronta questa questione in vari punti, offrendo il suo trattamento più sistematico in The Elm and the Expert (1994). Si vedano Arjo (1996), Aydede (1998), Aydede e Robbins (2001), Wakefield (2002); Perry (1998) e Wakefield (2002) per le critiche. Si vedano Rupert (2008) e Schneider (2005) per le posizioni vicine a quelle di Fodor. Dretske (1993) e Shea (2018: 197-226) perseguono strategie alternative per rivendicare la rilevanza del contenuto esteso .

Il divario percepito tra descrizione computazionale e descrizione intenzionale anima molti dibattiti intorno alla TCM. Alcuni filosofi cercano di colmarlo utilizzando descrizioni computazionali che individuano gli stati computazionali in termini rappresentazionali. Queste trattazioni sono di carattere contenutistico ( content-involving ), per usare la terminologia di Christopher Peacocke (1994). Per questo tipo di approccio, non c’è una rigida demarcazione tra descrizione computazionale e descrizione intenzionale. In particolare, alcune descrizioni scientificamente valide dell’attività mentale sono sia computazionali che intenzionali. Chiamiamo questa posizione computazionalismo contenutistico .

I computazionalisti contenutistici non devono necessariamente dire che tutte le descrizioni computazionali sono intenzionali. Per capire meglio, supponiamo di descrivere una semplice macchina di Turing che manipola simboli definiti dalle loro forme geometriche. La descrizione computazionale che ne risulta non è plausibilmente contenutistica; di conseguenza, i computazionalisti contenutistici di solito non avanzano la teoria del contenuto mentale come teoria computazionale generale. Sostengono solo che alcune importanti descrizioni computazionali siano contenutistiche.

Si può sviluppare un computazionalismo contenutistico in una direzione internista o esternista. I primi sostengono che alcune descrizioni computazionali identificano gli stati mentali in parte attraverso i loro contenuti stretti. Murat Aydede (2005) raccomanda una posizione simile. I secondi affermano che alcune descrizioni computazionali identificano gli stati mentali in parte attraverso i loro contenuti estesi. Tyler Burge (2010a: 95-101), Christopher Peacocke (1994, 1999), Michael Rescorla (2012) e Mark Sprevak (2010) sposano questa posizione. Oron Shagrir (2001, di prossima pubblicazione) sostiene un computazionalismo contenutistico neutrale tra internalismo ed esternismo.

I computazionalisti contenutistici esternisti citano solitamente la pratica delle scienze cognitive come fattore motivante. Per esempio, la psicologia percettiva descrive il sistema percettivo come la computazione di una stima delle dimensioni di un oggetto a partire da stimolazioni della retina e da aspettative sulla profondità dell’oggetto stesso. Queste “stime” percettive sono identificate rappresentazionalmente, immaginando specifiche dimensioni e profondità nello spazio. Abbastanza plausibilmente, queste relazioni rappresentazionali non sopravvengono sulla neurofisiologia del soggetto. Abbastanza plausibilmente, quindi, la psicologia percettiva descrive i calcoli percettivi in termini di contenuto esteso. Perciò una visione contenutistica esternista sembrerebbe armonizzarsi bene con lo stato attuale delle scienze cognitive.

Una delle sfide maggiori davanti al computazionalismo contenutistico riguarda il confronto con le formalizzazioni del computazionalismo standard, come le macchine di Turing. Come si relazionano le descrizioni contenutistiche ai modelli della logica e dell’informatica? Solitamente i filosofi assumono che non offrano infatti descrizioni intenzionali. Se questo è vero, le difficoltà per il computazionalismo contenutistico sono pesanti e forse insuperabili.

Nonostante tutto, però, molte formalizzazioni classiche del computazionalismo sono compatibili con strutture contenutistiche anziché puramente formo-sintattiche. Si consideri ancora una macchina di Turing: si possono individuare i “simboli” dell’alfabeto della macchina in maniera non-semantica, attraverso caratteristiche come la forma geometrica. Ma è necessario che il formalismo di Turing preveda uno schema non-semantico di individuazione dei simboli? In parte, magari, possiamo definirli anche in base ai loro contenuti. Ovviamente, una macchina di Turing non cita esplicitamente proprietà semantiche (per esempio, referenza o condizioni di verità). Tuttavia, è possibile programmarvi meccanicamente delle regole per descrivere come manipolare i simboli benché identificati per genere in termini contenutistici. Così facendo, la tavola della macchina prescrive delle transizioni tra stati muniti di contenuto senza menzionare esplicitamente delle proprietà semantiche. Aydede (2005) propone una versione internista di questa tesi, identificando i tipi di simboli secondo i loro contenuti stretti. [ 4 ] Rescorla (2017a) ne sviluppa una lettura esternista, attraverso i contenuti estesi; ritiene che alcuni modelli di Turing descriverebbero operazioni di computazione attraverso simboli mentali individuati esternisticamente. [ 5 ]

Di principio, si potrebbero sostenere allo stesso tempo una visione computazionalista contenutistica ed esternista e una visione formo-sintattica. Potrebbero essere viste come prospettive a diversi livelli di spiegazione. Peacocke supporta qualcosa di analogo. Altri computazionalisti contenutistici sono più scettici nei confronti delle letture sintattiche della mente. Per esempio, Burge dubita del potere esplicativo della sintassi formale per certe aree della psicologia scientifica (tra cui la psicologia della percezione). Da questo punto di vista, l’obiezione eliminativista di cui al  §5.1 si ripresenta all’inverso. Non dovremmo assumere che le descrizioni formo-sintattiche abbiano un ruolo nelle nostre spiegazioni e poi chiederci cos’altro possono offrirci delle descrizioni intenzionali: dovremmo piuttosto accettare le descrizioni intenzionali esternaliste presenti nelle scienze cognitive moderne e poi chiederci qual è il valore ulteriore di una descrizione formo-sintattica.

I sostenitori delle descrizioni sintattiche formali rispondono tirando in questione i meccanismi di implementazione . Una lettura esternista dell’attività mentale presuppone relazioni causali e temporali tra la mente e l’ambiente fisico circostante. Vogliamo però sicuramente puntare a una spiegazione “locale” che ignori relazioni esterne, al fine di rivelare i meccanismi causali insiti nella mente. Fodor (1987, 1994) motiva così il suo supporto alla visione sintattica formale. Per possibili risposte esternaliste a questo argomento, si vedano Burge (2010b), Rescorla (2017b), Shea (2013) e Sprevak (2010). Il dibattito su questa questione, e più in generale sulla relazione tra la computazione e le rappresentazioni mentali, sembrano destinate ancora a durare per molto .]

6. Teorie alternative al computazionalismo

La letteratura offre molte teorie alternative, solitamente proposte a fondamento della TCM. In molti casi, queste visioni si sovrappongono tra loro o con contributi nominati in precedenza .

Spesso gli scienziati cognitive parlano della computazione mentale come di “elaborazione di informazioni”. È meno comune che specifichino cosa intendono per “informazioni” o per “elaborazione”. Senza essere più precisi di così, non rimane niente più che uno slogan.

Claude Shannon ha introdotto un’importante nozione di “informazione” a finalità scientifiche nel suo articolo del 1948 “A Mathematical Theory of Communication”. L’idea di fondo è che l’informazione è una misura della riduzione dell’incertezza , che si manifesta nell’alterazione della probabilità di diversi possibili stati futuri. Shannon ha impostato il suo sistema in modo rigorosamente matematico, fondando così la teoria dell’informazione (Cover and Thomas 2006). Questa disciplina, tra l’altro, è centrale per l’ingegneria moderna. Trova però anche numerose applicazioni nelle scienze cognitive, in particolare nelle neuroscienze cognitive. Questa visione rinforza la visione della computazione mentale come “elaborazione di informazioni”? Si immagini una macchina a nastro vecchio stampo per registrare messaggi radio: nel sistema di Shannon, è possibile misurare la quantità di informazioni che è stata comunicata. In un certo senso, la macchina “elabora” questa informazione ogni volta che riascoltiamo il messaggio registrato. Eppure, non sembra che il dispositivo possa rappresentare un modello computazionale non-triviale. [ 6 ] Di certo, né il formalismo della macchina di Turing né una rete neurale possono analizzare con successo le operazioni di questa macchina. Se questo è vero, un sistema può elaborare informazioni di Shannon senza svolgere calcoli.

Considerando esempi simili, si può essere tentati di dare una definizione più forte di “elaborazione”, così che la macchina a nastro non “elabori” informazioni. Oppure, si può affermare che stia in realtà non-trivialmente eseguendo dei calcoli. Piccinini e Scarantino (2010) propongono una teoria astratta sulla computazione – che chiamano computazione generica ( generic computation ) – che finisce per sostenere quest’ultima strategia.

Una seconda nozione di informazione si trova nella teoria di Paul Grice (1989) sul significato naturale . Questo concetto richiede correlazioni solide e supportate controfattualmente. Per esempio, gli anelli del legno corrispondono all’età dell’albero, i puntini rossi alla varicella. Nella vita quotidiana, affermiamo che gli anelli del legno diano informazioni sull’età dell’albero, o i puntini rossi sulla presenza della varicella, e così via. Queste descrizioni suggeriscono in effetti una visione che legherebbe anche l’informazione a correlazioni solide e supportate controfattualmente. Fred Dretske (1981) sviluppa questa intuizione in una teoria sistematica, seguito a sua volta da vari filosofi. Questa visione dretskiana dell’informazione fornisce una plausibile analisi di computazione mentale come “elaborazione di informazioni”? Si immagini un termostato a doppia lamina metallica vecchio stampo, con due strati di diversi metalli che vengono uniti ad un’unica lamina. La loro diversa espansione fa piegare la lamina, attivando o disattivando così il riscaldamento. Lo stato della lamina corrisponde stabilmente alla temperatura dell’ambiente circostante, e così il termostato “elaborerebbe” tali informazioni gestendo di conseguenza l’impianto. Ancora, il termostato non sembra incarnare alcun modello computazionale non-triviale, e normalmente non si direbbe che stia eseguendo dei calcoli. Se questo è vero, un sistema può elaborare informazioni di Dretske senza svolgere calcoli. Ovviamente, è possibile criticare questo esempio in maniera analoga a quanto fatto nel paragrafo precedente.

Una terza nozione di informazione è l’ informazione semantica , cioè il contenuto rappresentazionale. [ 7 ] Alcuni filosofi ritengono che un sistema fisico possa eseguire calcoli se e solo se possiede proprietà rappresentazionali (Dietrich 1989; Fodor 1998: 10; Ladyman 2009; Shagrir 2006; Sprevak 2010). In questo senso, l’elaborazione delle informazioni è necessaria per la computazione. Nelle parole di Fodor: “ no computation without representation ” (1975: 34). Questa posizione è disputata, in ogni caso. Chalmers (2011) e Piccinini (2008a) sostengono che una macchina di Turing farebbe calcoli anche se i simboli che manipola non avessero alcuna interpretazione semantica: queste operazioni sono puramente sintattiche per loro natura e non possiedono alcuna proprietà semantica. Se questo è vero, dunque, il contenuto rappresentazionale non è condizione necessaria affinché un sistema fisico conti come computazionale.

Non è chiaro se lo slogan “la computazione mentale è elaborazione di informazioni” abbia futuro. Nonostante tutto, è ancora molto considerato dalla letteratura. Per approfondire le possibili connessioni tra il computazionalismo e l’informazione, si vedano Gallistel e King (2009: 1–26), Lizier, Flecker e Williams (2013), Milkowski (2013), Piccinini e Scarantino (2010) e Sprevak (di prossima pubblicazione) .

In un passaggio molto citato dello psicologo della percezione David Marr (1982), si distinguono tre livelli di descrizione di un “dispositivo di elaborazione di informazioni”:

Teoria computazionale : “il dispositivo mappa un tipo di informazione su un altro tipo, definendo in modo preciso le proprietà astratte dell’operazione e dimostrandone l’accuratezza e l’adeguatezza.” (p. 24).

Rappresentazione ed algoritmo : “la scelta della rappresentazione per l’input e l’output e l’algoritmo per passare dall’uno all’altro.” (pp. 24–25).

Integrazione nell’hardware : “i dettagli su come l’algoritmo e la rappresentazione sono realizzati fisicamente.” (p. 25).

I tre livelli di Marr hanno portato a intense indagini filosofiche. Ai fini di questa pagina, il punto focale è che il primo qui presentato descrive la mappatura da input ad output senza gli step intermedi. Marr illustra questo suo approccio portando letture “a livello computazionale” di vari processi percettivi, come per esempio il riconoscimento dei contorni.

La teoria di Marr suggerisce una concezione funzionale della computazione , secondo cui questa sarebbe una trasformazione da input ad output adeguati. Frances Egan elabora questa visione in una serie di articoli (1991, 1992, 1999, 2003, 2010, 2014, 2019). Allo stesso modo, ella parla di descrizione computazionale in termini di relazione input-output. Arriva anche ad affermare che i modelli computazionali incarnano funzioni puramente matematiche , cioè di mappatura tra input matematici ad output matematici. Illustra questa tesi attraverso l’esempio di un meccanismo visuale (chiamato “Visua”) che elabora la profondità dell’oggetto tramite la disparità negli stimoli alla retina; chiede poi di immaginare un doppione neurofisiologico di tale meccanismo (“Visua’”), posto nel proprio ambiente fisico in una maniera tale che non rappresenti la profondità spaziale. Nonostante tutto, secondo Egan, l’ottica tratterebbe Visua e Visua’ anche come doppioni computazionali . Infatti, entrambi eseguono la stessa funzione matematica, sebbene i loro calcoli abbiano conseguenze rappresentazionali differenti. La conclusione è che la computazione mentale implicherebbe una “descrizione matematica astratta” compatibile con diverse possibili descrizioni rappresentazionali. L’attribuzione dell’intenzionalità è unicamente una glossa euristica alla struttura computazionale di fondo.

Chalmers (2012) afferma che la concezione funzionale tralascia aspetti importanti della computazione. Secondo lui, i modelli computazionali descriverebbero di più che solamente delle relazioni input-output: descriverebbero gli step intermedi che supportano la trasformazione. Questi, che Marr stipa a livello “algoritmico”, in effetti compaiono in maniera prominente nei modelli computazionali di logici e informatici. Restringere il termine “computazione” al rapporto tra input e output non rende giustizia alla pratica standard del computazionalismo.

Un’ulteriore obiezione alle teorie funzionaliste come quella di Egan è che mettono unicamente l’accento su input e output matematici . I loro critici lamentano che la filosofa darebbe troppa importanza a funzioni matematiche a scapito delle spiegazioni intenzionali che sono da sempre offerte dalle scienze cognitive (Burge 2005; Rescorla 2015; Silverberg 2006; Sprevak 2010). Si supponga che la psicologia della percezione descriva un sistema percettivo che vede la profondità di un oggetto di 5 metri. Questa stima ha un contenuto rappresentazionale: è accurata se e solo se la profondità dell’oggetto è di 5 metri. Il numero 5 ha il compito di definire questa stima spaziale. Tuttavia, la nostra scelta di questo valore dipende dalla nostra scelta arbitraria di una certa unità di misura. Secondo i critici, è il contenuto della stima della profondità e non il numero arbitrario con cui viene specificato che risulta importante nella spiegazione psicologica del fenomeno. Il ruolo centrale, nella teoria di Egan, è rivestito dalla misura anziché da ciò che ci sta dietro; ovvero, la spiegazione computazionale dovrebbe trattare il sistema visivo come un dispositivo che calcola una particolare funzione matematica che trasforma particolari input matematici in particolari output matematici . Questi input e output matematici particolari dipendono dalla nostra scelta arbitraria dell’unità di misura, quindi c’è ragione di pensare che non abbiano il potere esplicativo che Egan attribuirebbe loro.

Bisognerebbe fare poi una distinzione tra l’approccio funzionale, come quello di Marr ed Egan, e il paradigma funzionale nella programmazione in informatica. Quest’ultimo modella l’analisi di una funzione complessa in una serie di analisi successive di funzioni più semplici. Per fare un breve esempio, f(x,y)=(x2+y)f(x,y)=(x2+y) può essere analizzata partendo prima dalla funzione quadratica e poi dalla funzione di addizione. La programmazione funzionale è qualcosa di diverso dal “livello computazionale” di spiegazione proposto da Marr, perché tratta degli stadi intermedi della computazione. Questo paradigma si rifà al lambda-computazione di Alonzo Church (1936), in continuità con linguaggi di programmazione come PCF e LISP. Gioca un ruolo importante nell’IA e nell’informatica teorica. Alcuni autori suggeriscono che questa strada sia una via privilegiata all’analisi della computazione mentale (Klein 2012; Piantadosi, Tenenbaum e Goodman 2012). In ogni caso, molte formalizzazioni computazionali non sottostanno a questo paradigma funzionale: le macchine di Turing, i linguaggi di programmazione a comandi (come C), i linguaggi di programmazione logici (Prolog), etc. Sebbene questo approccio descriva numerose importanti operazioni di computazione (magari anche la computazione mentale), non è una buona teoria della computazione in generale .

Molte proposte in filosofia utilizzano una nozione strutturalista di computazione : un modello computazionale descrive una struttura causale astratta a prescindere dai sistemi fisici particolari che possono istanziarla. Questa concezione è datata almeno quanto l’intervento originale di Putnam (1967) sull’argomento. Chalmers (1995, 1996a, 2011, 2012) la estende nel dettaglio. È lui a introdurre la formalizzazione dell’ automa a stati combinatori (ASC), che include molti modelli computazionali classici (tra cui le macchine di Turing e le reti neurali). Un ASC consiste in una descrizione astratta della topologia causale di un sistema fisico: la serie di interazioni causali tra le parti del sistema stesso, indipendentemente dalla loro natura particolare o anche dai meccanismi causali attraverso cui interagiscono. Una trattazione computazionale definirebbe così una topologia causale.

Chalmers utilizza lo strutturalismo per delineare una versione molto generale di TCM. Assume la visione funzionalista che gli stati psicologici siano individuati dal loro ruolo in una serie causale. La descrizione psicologica di un fenomeno specifica dei ruoli causali, astratti dagli stati fisici che li realizzano. In altre parole, le proprietà psicologiche sono organizzativamente invarianti , sopravvenendo sulla topologia causale del sistema. Nella misura in cui una descrizione computazionale definisce una topologia causale, mostrare determinate caratteristiche computazionali basta a istanziare determinate proprietà mentali. Perciò, la trattazione psicologica è una specie di trattazione computazionale, in maniera tale che una teoria computazionale dovrebbe essere centrale alla disciplina della psicologia. In questo modo uno computazionalismo strutturalista fornirebbe una fondazione solida alle scienze cognitive. La nostra vita mentale è fondata su serie causali, che sono catturate precisamente da modelli computazionali.

Lo strutturalismo implica una teoria molto elegante sulla relazione di implementazione di un modello computazionale astratto in un sistema fisico. A che condizioni si può dire il secondo realizzi il primo? Secondo gli strutturalisti, è necessario che la struttura causale del modello sia “isomorfica” alla sua struttura formale. Un modello computazionale descrive un sistema fisico articolando una formalizzazione di una particolare topologia causale. Chalmers lavora su questa intuizione, fornendo condizioni necessarie e sufficienti molto dettagliate per realizzare un ASC nel mondo fisico. Sono poche (se ci sono) le teorie computazionali che riescono a dare una buona spiegazione di come funzioni la relazione di implementazione.

Confrontiamo ora il computazionalismo strutturale con altre prospettive analizzate in precedenza:

Funzionalismo meccanico . Il computazionalismo strutturale accetta l’idea di fondo del funzionalismo meccanico: gli stati mentali sono stati funzionali descrivibili attraverso una formalizzazione computazionale. Putnam propone la TCM come ipotesi empirica e difende il suo funzionalismo su questa base. Al contrario, Chalmers segue David Lewis (1972) nel fondare il suo funzionalismo nell’analisi concettuale della mente. Insomma, il primo difende il funzionalismo partendo dal computazionalismo, il secondo difende il computazionalismo partendo dal funzionalismo.

Computazionalismo classico , connessionismo e neuroscienze computazionali . Il computazionalismo strutturalista focalizza l’attenzione sulla descrizione di strutture organizzativamente invarianti, che possiedono realizzabilità multipla. Da questo punto di vista si distacca dalle neuroscienze cognitive. Invece, lo strutturalismo è compatibile sia col computazionalismo classico che con quello connessionista, pur separandosene nell’atteggiamento. Infatti, questi ultimi presentano le loro teorie come ipotesi sostanziali sulla natura della mente. Chalmers propone il computazionalismo strutturalista come una posizione piuttosto minimalista, tale da essere difficile da confutare.

Realismo intenzionale ed eliminativismo . Il computazionalismo strutturalista è compatibile con entrambe le posizioni. L’ASC non menziona esplicitamente proprietà semantiche come referenza, condizioni di verità, contenuto rappresentazionale, etc. I computazionalisti strutturalisti non hanno bisogno di assegnare alcun ruolo importante sotto il profilo della psicologia scientifica al contenuto rappresentazionale. D’altra parte, il computazionalismo strutturalista non si preclude nemmeno questa possibilità.

Concezione formo-sintattica della computazione . Il contenuto esteso dipende dalle relazioni causali e temporali con l’ambiente esterno, che sfuggono quindi alla topologia causale. Per tanto, il computazionalismo strutturalista è neutro sul contenuto esteso di un fenomeno. Presumibilmente, il contenuto stretto sopravviene sulla topologia causale, sebbene la descrizione di un ASC non lo menzioni esplicitamente. Dunque, il computazionalismo strutturalista dà priorità a un livello di spiegazione formale, non-semantico. Da questo punto di vista è vicino alla CFS. D’altra parte, però, non è necessario che i primi dicano, come fa la seconda prospettiva, che la computazione è “insensibile” alle proprietà semantiche.

Nonostante il computazionalismo strutturalista sia distinto dalla TCM+CFS, solleva alcune obiezioni analoghe. Per esempio, Rescorla (2012) nega che la topologia causale giochi un ruolo esplicativo centrale nelle scienze cognitive come sosterrebbe questa posizione. Suggerisce invece che la priorità è della descrizione intenzionale esternista, anziché delle strutture organizzativamente invarianti. Parallelamente, i neuroscienziati computazionali raccomanderebbero dal canto loro di abbandonare queste strutture per concentrarsi su modelli computazionali più fedeli alla realtà dei neuroni. Rispondendo a queste questioni, Chalmers (2012) afferma che la descrizione computazionale organizzativamente invariante ha dei vantaggi dal punto di vista esplicativo che nessuna delle due alternative offrirebbe: rivela i meccanismi insiti nella cognizione (a differenza della descrizione intenzionale) e astrae dalla realizzazione dei fenomeni psicologici a livello neurale .

La natura meccanicistica della computazione è un tema che torna spesso in logica, filosofica, e nelle scienze cognitive. Gualtiero Piccinini (2007, 2012, 2015) e Marcin Milkowski (2013) sviluppano questo argomento in una teoria meccanicistica dei sistemi computazionali. Un meccanismo funzionale è un sistema di component interconnesse in cui ciascuna di esse gioca una funzione specifica all’interno del sistema. Una spiegazione meccanicistica scompone il sistema nelle sue parti e descrive come queste siano organizzate nel tutto, isolando la funzione che caratterizza ciascuna componente. Un sistema computazionale è un tipo di meccanismo funzionale. Secondo Piccinini, in particolare, un sistema computazionale è un meccanismo funzionale organizzato per processare dei messaggi secondo certe regole. In modo simile a quanto Putnam dice sulla realizzabilità multipla, queste regole sarebbero indipendenti dal mezzo di attuazione , astraendo cioè dalle specifiche fisiche dei veicoli della rappresentazione. La descrizione computazionale scompone il sistema in parti e descrive come ciascuna contribuisce a processarne i veicoli. Se il sistema processa dei veicoli strutturati in modo discreto, allora la computazione è digitale; viceversa, è analogica. La versione di Milkowski dell’approccio meccanicistico è simile. La differenza con Piccinini è che è più vicino alla nozione di “elaborazione delle informazioni”, in modo che i meccanismi computazionali opererebbero su stati che trasportano informazione. Entrambi utilizzano questo loro approccio in sostegno del loro computazionalismo.

I computazionalisti meccanicistici solitamente individuano gli stati computazionali in maniera non-semantica. Quindi sono suscettibili alle questioni sul ruolo del contenuto rappresentazionale, come per la CFS e lo strutturalismo. Così facendo, Shagrir (2014) lamenta come questa visione non troverebbe spazio nelle scienze cognitive le cui spiegazioni sono allo stesso tempo computazionali e rappresentazionali. Quanto queste obiezioni attecchiscano dipende dalla propria posizione sul ruolo del contenuto nel computazionalismo .

Abbiamo trattato molte teorie computazionali alle volte sovrapponibili o incompatibili tra loro: computazionalismo classico, computazionalismo connessionista, neuroscienze computazionali, computazionalismo formo-sintattico, computazionalismo del contenuto, computazionalismo informazionale, computazionalismo funzionale, computazionalismo strutturalista e computazionalismo meccanicistico. Ciascuna parla in modo diverso della computazione e ha i propri pro e contro. È possibile altresì adottare un punto di vista pluralista che accetti diverse concezioni distinte. I pluralisti, anziché elevare una teoria sopra le altre, utilizzano tranquillamente la prospettiva che sembra più adattabile al contesto della spiegazione. Edelman (2008) assume un approccio pluralistico, così come ultimamente anche Chalmers (2012).

L’approccio pluralista fa sorgere alcune questioni. È possibile un’analisi generica che abbracci tutti (o quasi) i tipi ci computazione? Tutti i tipi di computazione hanno delle caratteristiche comuni? O sono forse accomunati da un’aria di famiglia? Approfondire il computazionalismo significa anche cercare una risposta a queste domande .

7. Argomenti contro il computazionalismo

La TCM ha suscitato numerose obiezioni. In molti casi, queste si applicano solo a versioni specifiche della TCM (come il computazionalismo classico o il computazionalismo connessionista). Qui sono riportate alcune obiezioni importanti. Si veda anche la voce sull’ argomento della stanza cinese per un’obiezione contro il computazionalismo classico avanzata da John Searle (1980) e ampiamente discussa .

Una preoccupazione ricorrente è che la TCM sia banale , perché possiamo descrivere quasi tutti i sistemi fisici attraverso l’esecuzione di calcoli. Searle (1990) afferma che un muro implementa qualsiasi programma per computer, dal momento che possiamo discernere alcuni schemi di movimenti molecolari nel muro che sono isomorfi alla struttura formale del programma. Putnam (1988: 121–125) difende una forma di argomento della banalità meno estrema, ma comunque molto forte e sulla stessa linea. Gli argomenti della banalità giocano un ruolo importante nella letteratura filosofica. Gli anti-computazionalisti utilizzano gli argomenti della banalità contro il computazionalismo, mentre i computazionalisti cercano di evitarli.

I computazionalisti di solito rigettano gli argomenti della banalità insistendo sul fatto che tali argomenti trascurano i vincoli sull’implementazione computazionale, i quali impediscono che le implementazioni vengano banalizzate. I vincoli possono essere controfattuali, causali, semantici o di altro tipo, a seconda della teoria della computazione che adottiamo. Ad esempio, David Chalmers (1995, 1996a) e B. Jack Copeland (1996) sostengono che l’argomento della banalità di Putnam ignora i condizionali controfattuali che un sistema fisico deve soddisfare per implementare un modello computazionale. Altri filosofi affermano che un sistema fisico deve avere proprietà rappresentazionali per implementare un modello computazionale (Fodor 1998: 11-12; Ladyman 2009; Sprevak 2010) o almeno per implementare un modello computazionale contenutistico (Rescorla 2013, 2014b). I dettagli qui variano considerevolmente e i computazionalisti discutono tra loro su quali tipi di computazione possono evitare esattamente gli argomenti della banalità. Ma la maggior parte dei computazionalisti concorda sul fatto che possiamo evitare qualsiasi devastante banalità attraverso una teoria sufficientemente solida della relazione di implementazione tra modelli computazionali e sistemi fisici.

Il pan-computazionalismo sostiene che ogni sistema fisico implementa un modello computazionale. Questa tesi è plausibile, poiché qualsiasi sistema fisico implementa verosimilmente un modello computazionale sufficientemente banale (ad esempio, un automa finito a stati singoli). Come nota Chalmers (2011), il pan-computazionalismo non sembra preoccupare il computazionalismo. Ciò che sarebbe più preoccupante è la versione più forte della tesi molto più forte secondo cui quasi tutti i sistemi fisici implementano quasi tutti i modelli computazionali.

Per ulteriori discussioni sugli argomenti della banalità e sull’implementazione computazionale, si veda Sprevak (2019) e la voce sulla computazione nei sistemi fisici .

Secondo alcuni autori, i teoremi di incompletezza di Gödel mostrano che le capacità matematiche umane superano le capacità di qualsiasi macchina di Turing (Nagel e Newman 1958). J.R. Lucas (1961) sviluppa questa posizione in una famosa critica della TCMC. Roger Penrose persegue la critica in The Emperor’s New Mind (1989) e negli scritti successivi. Vari filosofi e logici hanno risposto a questa critica, sostenendo che le formulazioni attuali soffrono di fallacie, supposizioni che fanno petizioni di principio e persino errori matematici (Bowie 1982; Chalmers 1996b; Feferman 1996; Lewis 1969, 1979; Putnam 1975: 365-366, 1994; Shapiro 2003). C’è un ampio consenso sul fatto che questa critica alla TCMC sia priva di forza. Può risultare che alcune capacità mentali umane superino la computabilità di Turing, ma i teoremi di incompletezza di Gödel non forniscono alcun motivo per cantare vittoria .

Un computer può comporre la sinfonia dell’ Eroica ? O scoprire la relatività generale? O addirittura replicare la naturale capacità di un bambino di percepire l’ambiente, allacciarsi le scarpe e discernere le emozioni degli altri? Può sembrare che l’intuito, la creatività e le capacità umane resistano alla formalizzazione da parte di un programma per computer (Dreyfus 1972, 1992). Più in generale, ci si potrebbe preoccupare che aspetti cruciali della cognizione umana sfuggano al modello computazionale, in particolare quello classico.

Ironicamente, Fodor propone una versione energica di questa critica. Già nel contesto delle sue prime riflessioni sulla TCMC, Fodor (1975: 197–205) espresse un notevole scetticismo sul fatto che essa possa rendere conto di tutti i fenomeni cognitivi importanti. Il pessimismo diventa più pronunciato nei suoi scritti successivi (1983, 2000), che si concentrano soprattutto sul ragionamento abduttivo come esempio di un fenomeno mentale che potenzialmente sfugge al modello computazionale. Il suo argomento principale può essere riassunto come segue:

(1) La computazione alla Turing è sensibile solo alle proprietà “locali” di una rappresentazione mentale, che sono esaurite dall’identità e dalla disposizione dei componenti della rappresentazione.

(2) Molti processi mentali, paradigmaticamente l’abduzione, sono sensibili a proprietà “non locali” come la rilevanza, la semplicità e la conservazione.

(3) Dunque, potremmo aver bisogno di abbandonare il modello alla Turing dei processi rilevanti.

(4) Sfortunatamente, al momento non abbiamo idea di quale teoria alternativa possa sostituirla in maniera appropriata.

Alcuni critici negano (1), sostenendo che adeguati calcoli alla Turing possono essere sensibili a proprietà “non locali” (Schneider 2011; Wilson 2005). Qualcuno sfida (2), sostenendo che le inferenze abduttive tipiche sono sensibili solo alle proprietà “locali” (Carruthers 2003; Ludwig e Schneider 2008; Sperber 2002). Alcuni ammettono (3) ma contestano (4), insistendo sul fatto che abbiamo modelli promettenti non alla Turing dei processi mentali rilevanti (Pinker 2005). Spinto in parte da tali critiche, Fodor elabora la sua argomentazione in modo molto dettagliato. Per difendere (2), critica le teorie che modellano l’abduzione utilizzando algoritmi euristici “locali” (2005: 41-46; 2008: 115-126) o ipotizzando una profusione di moduli cognitivi specifici del dominio (2005: 56-100). Per difendere (4), critica varie teorie che definiscono l’abduzione attraverso modelli non in stile Turing (2000: 46-53; 2008), come le reti connessioniste.

La portata e i limiti del modello computazionale rimangono controversi. Possiamo aspettarci che questo argomento rimanga al centro dell’attenzione dell’indagine, che verrà portata avanti assieme all’IA .

L’attività mentale si svolge nel tempo. Inoltre, la mente compie compiti sofisticati (ad esempio la stima percettiva) molto rapidamente. Molti critici temono che il computazionalismo, in particolare il computazionalismo classico, non si adatti adeguatamente agli aspetti temporali della cognizione. Un modello alla Turing non fa menzione esplicita della scala temporale lungo la quale avviene la computazione. Si potrebbe implementare fisicamente la stessa macchina di Turing astratta con un dispositivo a base di silicio, o un dispositivo a valvole termoioniche più lento, o un dispositivo a leve e pulegge ancora più lento. I critici suggeriscono di rifiutare la TCMC a favore di un quadro alternativo che incorpori più direttamente le considerazioni di carattere temporale. van Gelder e Port (1995) usano questo argomento per promuovere un framework di sistemi dinamici non computazionale per modellare l’attività mentale. Eliasmith (2003, 2013: 12-13) lo utilizza per supportare il suo Neural Engineering Framework .

I computazionalisti rispondono che possiamo integrare un modello computazionale astratto con le considerazioni temporali (Piccinini 2010; Weiskopf 2004). Ad esempio, un modello di macchina di Turing presuppone discrete “fasi di computazione”, senza descrivere come le fasi si relazionano al tempo fisico. Ma possiamo integrare il nostro modello descrivendo la durata di ogni fase, convertendo così il nostro modello (una macchina di Turing non temporale) in una teoria che fornisca previsioni temporali dettagliate. Molti sostenitori della TCM integrano la teoria in questo modo per studiare le proprietà temporali della cognizione (Newell 1990). Un’integrazione simile figura in modo prominente nell’informatica, i cui professionisti sono piuttosto interessati a costruire macchine con proprietà temporali appropriate. I computazionalisti ne concludono che una versione adeguatamente integrata della TCM potrebbe catturare adeguatamente il modo in cui la cognizione si sviluppa nel tempo.

Una seconda obiezione temporale evidenzia il contrasto tra evoluzione temporale discreta e continua (van Gelder e Port 1995). La computazione da parte di una macchina di Turing si svolge in fasi discrete, mentre l’attività mentale si svolge in un tempo continuo. Pertanto, vi è una fondamentale discrepanza tra le proprietà temporali della computazione in stile Turing e quelle dell’attività mentale effettiva. Abbiamo bisogno di una teoria psicologica che descriva l’evoluzione temporale continua.

I computazionalisti rispondono che questa obiezione presuppone ciò che deve essere mostrato: che l’attività cognitiva non rientra in fasi esplicative significative discrete (Weiskopf 2004). Supponendo che il tempo fisico sia continuo, segue che l’attività mentale si svolge in un tempo continuo. Non segue che i modelli cognitivi debbano avere una struttura temporale continua. Un personal computer opera in un tempo continuo e il suo stato fisico evolve continuamente. Una teoria fisica completa rifletterà tutti quei cambiamenti fisici. Ma il nostro modello computazionale non riflette ogni cambiamento fisico del computer. Il nostro modello computazionale ha una struttura temporale discreta. Perché dovremmo assumere che un buon modello della mente a livello cognitivo debba riflettere ogni cambiamento fisico nel cervello? Anche se esistesse un continuum di stati fisici in evoluzione, perché dovremmo assumere un continuum di stati cognitivi in ​​evoluzione? Il semplice fatto di avere un’evoluzione temporale continua non attacca i modelli computazionali con una struttura temporale discreta .

La cognizione incorporata è un programma di ricerca che trae ispirazione dal filosofo continentale Maurice Merleau-Ponty, lo psicologo percettivo J.J. Gibson, e varie ulteriori influenze. È un movimento abbastanza eterogeneo, ma l’idea di base è enfatizzare i legami tra cognizione, azione corporea e ambiente circostante. Si veda Varela, Thompson e Rosch (1991) per un’influente prima teorizzazione. In molti casi, i suoi sostenitori utilizzano gli strumenti della teoria dei sistemi dinamici. I suoi fautori presentano tipicamente il loro approccio come un’alternativa radicale al computazionalismo (Chemero 2009; Kelso 1995; Thelen e Smith 1994). La TCM, lamentano, tratta l’attività mentale come una manipolazione di simboli statici staccata dall’ambiente di incorporamento. Essa trascura una miriade di modi complessi in cui l’ambiente modella in modo causale o costitutivo l’attività mentale. Dovremmo sostituire la TCM con un nuovo quadro teorico che enfatizzi i collegamenti continui tra mente, corpo e ambiente. La dinamica agente-ambiente, non la computazione mentale interna, è la chiave per comprendere la cognizione. Spesso, un atteggiamento ampiamente eliminativista nei confronti dell’intenzionalità muove questa critica.

I computazionalisti rispondono che la TCM riconosce il reale valore della cognizione incorporata. I modelli computazionali possono tenere conto del modo in cui mente, corpo e ambiente interagiscono continuamente tra di loro. Dopo tutto, i modelli computazionali possono incorporare input sensoriali e output motori. Non c’è un’ovvia ragione per cui un focus sulle dinamiche agente-ambiente precluderebbe una doppia enfasi sulla computazione mentale interna (Clark 2014: 140-165; Rupert 2009). I computazionalisti sostengono che TCM possa incorporare qualsiasi intuizione legittima offerta dalla teoria della cognizione incorporata. Essi insistono anche sul fatto che TCM rimane il nostro miglior quadro teorico per spiegare numerosi fenomeni psicologici fondamentali .

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  • Come citare questa voce
  •   Vedi la versione PDF di questa voce presso la Friends of SEP Society
  •   Vedi questo stesso argomento presso Internet Philosophy Ontology Project (InPhO)
  • Bibliografia arricchita per questa voce presso PhilPapers , con link al suo database .
  • Graves, A., G. Wayne, and I. Danihelko, 2014, “ Neural Turing Machines ”, manuscript at arXiv.org.
  • Horst, Steven, “The Computational Theory of Mind”,  Stanford Encyclopedia of Philosophy  (Summer 2015 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = < https://plato.stanford.edu/archives/sum2015/entries/computational-mind/ >. [This is the previous entry on the Computational Theory of Mind in the  Stanford Encyclopedia of Philosophy  — see the  version history .]
  • Marcin Milkowski, “ The Computational Theory of Mind ,” in the  Internet Encyclopedia of Philosophy .
  • Pozzi, I., S. Bohté, and P. Roelfsema, 2019, “ A Biologically Plausible Learning Rule for Deep Learning in the Brain ”, manuscript at arXiv.org.
  • Bibliography on philosophy of artificial intelligence , in Philpapers.org .

Voci correlate

analogy and analogical reasoning  |  anomalous monism  |  causation: the metaphysics of  |  Chinese room argument  |  Church-Turing Thesis  |  cognitive science  |  computability and complexity  |  computation: in physical systems  |  computer science, philosophy of  |  computing: modern history of  |  connectionism  |  culture: and cognitive science  |  externalism about the mind  |  folk psychology: as mental simulation  |  frame problem  |  functionalism  |  Gödel, Kurt  |  Gödel, Kurt: incompleteness theorems  |  Hilbert, David: program in the foundations of mathematics  |  language of thought hypothesis  |  mental causation  |  mental content: causal theories of  |  mental content: narrow  |  mental content: teleological theories of  |  mental imagery  |  mental representation  |  mental representation: in medieval philosophy  |  mind/brain identity theory  |  models in science  |  multiple realizability  |  other minds  |  reasoning: automated  |  reasoning: defeasible  |  reduction, scientific  |  simulations in science  |  Turing, Alan  |  Turing machines  |  Turing test  |  zombies

Copyright © 2020  by Michael Rescorla < [email protected] >

traduzione italiana di Filippo Pelucchi

SOS Matematica

[Risolto] Problema di Fisica sul condensatore

Considera la situazione del Problem solving 6 della teoria, in cm un oggetto e appeso a un filo tra le armature di un condensatore a facce piane parallele, come mostrato in figura. Supponi che l'intensità del campo elettrico tra le armature cambi, e che sia attaccato alla cordicella un oggetto con una carica di -2,05 uC. Se la tensione del file e 0,450 N e l'angolo che quest'ultimo con la verticale è di 16°, determina: a) la massa dell' oggetto; b) l'intensità del campo elettrico

Immagine 2022 10 23 190111

@trynabebetter  

TFP

dalla figura riportata indicando le intensità dei vettori con le lettere semplici:

T*cos16°= m*g ---> 0.45*cos16°/9.8 = ~ m --->m = ~ 0.044 kg

T*sen16°/|q| = E ---> E = 0.45*sin16°/(2.05*10^-6) = 60505.8...... =~ 6.1*10^4 N/C

considera il problem solving 1 della teoria

@nik grazie mille

  • Triangolo isosciele al teorema 19 ore fa
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  • buonasera potete gentilmente aiutarmi con questo problema di fisica 2 giorni fa
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COMMENTS

  1. Daniel Kahneman

    Kahneman sostiene che il pensiero funziona secondo due principali modalità: il Sistema 1 e il Sistema 2. Il sistema 1 è quello primitivo ed emozionale, tipico dei "pensieri veloci", dei giudizi espressi con impulsività, basandosi su pochi dati, analizzati superficialmente. I pensieri del Sistema 1 tendono a utilizzare le euristiche ...

  2. Il problem solving come metodo per la risoluzione di problemi e

    Il ruolo della dopamina. L'umore di una persona può influenzare la produzione di dopamina, che a sua volta influenza l'attività di parti del cervello coinvolte nel problem solving. La teoria che spiega questo meccanismo si chiama "teoria dopaminergica dell'umore positivo", sviluppata da Ashby, Isen e Turken nel 1999.

  3. Il Problem Solving: cos'è e come si applica

    Problem solving significa letteralmente 'risoluzione di problemi', cioè l'analisi e la risposta ad una situazione critica, tendenzialmente nuova. Il problem solving è una competenza trasversale considerata ormai una delle capacità chiave per i prossimi anni; ancora di più dopo i cambiamenti che la pandemia ci ha posto.

  4. Il Problem Solving

    Il termine inglese problem solving indica il processo cognitivo messo in atto per analizzare la situazione problemica ed escogitare una soluzione. E' un'attività del pensiero che un organismo mette in atto, per raggiungere una condizione desiderata a partire da una condizione data. Il concetto di problem solving implica un ragionamento ...

  5. Howard Gardner

    La teoria delle intelligenze multiple. Le 9 Intelligenze di Howard Gardner come strumento per il Problem Solving. #1. Intelligenza Linguistica. Analisi del problema: #2. Intelligenza Logico-Matematica. Analisi del problema: #3.

  6. Problem Solving: Significato, Fasi, Creatività ed Esercizi

    Problem solving, ogni problema necessita di una soluzione.Le funzioni cognitive di ragionamento, problem solving e decision making rientrano nelle capacità generali relative al pensiero umano e alla metacognizione.. In psicologia, il pensiero viene definito come l'attività mentale di elaborazione di informazioni, riflessione e sviluppo di relazione tra dati.

  7. Il problem solving

    Il problem solving. L'attività di risoluzione di problemi è di fondamentale importanza nell'insegnamento della matematica a tutti i livelli scolastici. Invece essa, talvolta, viene relegata al ruolo di un tradizionale procedimento di verifica, a occasione di valutazione: in ogni compito in classe c'è "il problema"...

  8. PDF APPRENDIMENTO, LINGUAGGIO E PROBLEM SOLVING

    Apprendimento, linguaggio e problem solving 77. Gli studi sul linguaggio, condotti da CH O M S K Y hanno portato ad una ridefinizione del linguaggio. Egli sostiene, infatti, che il linguaggio, da lui inteso come "lo specchio dello spirito", è frutto del perfezionamento di qualità innate.

  9. Il Problem-Solving: Un Approccio Didattico per lo Sviluppo del Pensiero

    Il problem-solving è una strategia didattica che mira a sviluppare il pensiero critico, la creatività e la capacità di risolvere i problemi negli studenti. Questo approccio si basa sulla convinzione che gli studenti imparino meglio quando sono coinvolti attivamente nella risoluzione di situazioni complesse e reali. Il problem-solving si concentra sull'insegnamento di competenze che vanno

  10. Problem solving: cos'è, significato e come svilupparla

    Il termine "problem solving" in italiano si traduce come "risoluzione dei problemi". Si riferisce alla capacità di affrontare, analizzare e risolvere efficacemente situazioni complesse o difficoltà. Il problem solving implica la ricerca di soluzioni pratiche e creative per superare gli ostacoli o affrontare le sfide, utilizzando ...

  11. Quali sono le fasi del problem solving: una guida pratica

    Il problem solving è un processo mentale che ci aiuta a risolvere i problemi e a prendere decisioni consapevoli. Può sembrare un'attività semplice, ma comprendere le fasi del problem solving può aiutarci a essere più efficaci e efficienti nel trovare soluzioni. In questo articolo, esploreremo le fasi fondamentali del problem solving e forniremo una guida pratica per affrontare i ...

  12. Problem solving: definizioni e ruolo in ambito clinico

    Il problem solving è definito come qualsiasi sequenza di operazioni cognitive diretta all'obiettivo. (Anderson, 1980, p. 257) Il problem solving è definito qui come una sequenza finalizzata all'obiettivo di operazioni cognitive e affettive, oltre che comportamentali, messe in atto allo scopo di adattarsi a richieste o sfide interne o esterne.

  13. Riassunto Teoria e metodi del problem solving

    Soluzione di problemi e creatività Gli inizi Agli inizi I problemi, venivano adoperati dalla psicologia solo come Item. ( es. Binet e Simone nella creazione della scala del QI). Ma dagli anni 30 il problem solving diventa un settore autonomo della psicologia ( Gestaltisti: Duncker, Woodworth).

  14. Problem solving strategico: come risolvere i problemi

    Il problem solving è un modello che si può applicare a diversi ambiti e può permettere di affrontare problemi di diversa complessità. Lo scopo è quello di spezzare il circolo vizioso causato dalla persistenza del problema e dalle soluzioni fallite. Questa strategia si divide essenzialmente in tre fasi: la definizione, un'analisi delle ...

  15. Teorie e metodi del problem solving e della metacognizione

    Teorie e metodi del problem solving e della metacognizione: Introduzione: Lo studio del pensiero: una storia antica Ogni importante sistema filosofico della tradizione occidentale propone discussioni sul «pensare»; Il pensiero è una guida all'azione, uno strumento che ci permette di superare difficoltà e problemi; Studiare il pensiero è difficile: dai tempi di Aristotele, lo studio del ...

  16. Chi ha parlato di problem solving?

    Nel campo della psicologia, il teorico del comportamento Edward Thorndike ha introdotto il concetto di "trial and error" (tentativi ed errori) come un modo per risolvere i problemi. Nel campo dell'intelligenza artificiale, i ricercatori come Allen Newell e Herbert Simon hanno sviluppato il concetto di problem solving attraverso l'uso di ...

  17. Problem solving: perché è importante svilupparlo

    La capacità di problem solving - cioè di risoluzione dei problemi - è essenziale per le tue giornate: sia che ti trovi a casa, a scuola o al lavoro, ogni giorno incontri ostacoli che spesso salti a piedi pari senza soffermarti realmente su una soluzione efficace. È importante specificare che, nella maggior parte dei casi, non esiste una ...

  18. Sviluppare la metacognizione nel problem solving: un percorso di

    Il campione è costituito dagli alunni di tre classi terze della scuola secondaria di primo grado; dall'analisi sono stati esclusi gli studenti che erano stati assenti il giorno della somministrazione di almeno DdM 2020 (8), 115 - 140 120 Sviluppare la metacognizione nel problem solving: un percorso di ricerca didattica nella scuola ...

  19. PDF Il problem solving e la matematica ricreativa nella scuola del ...

    Mondo Matematico e Dintorni, Vol 1, No 1-2 (2018), 79-98 79 Il problem solving e la matematica ricreativa nella scuola del primo ciclo Angela Chiefari1, Mario Innocenzo Mandrone2, Franca Rossetti3 1Convitto Nazionale "P. Giannone" - Benevento- e-mail: [email protected] 2Dipartimento di Scienze e Tecnologie-Università degli Studi del Sannio-Benevento-

  20. PDF Problem solving e metacognizione. L'uso didattico del prompt per

    problematiche. Il problem solving è un processo cognitivo finalizzato al raggiungimento di un obiettivo, quando nessun metodo di soluzione è ovvio per colui che sta risolvendo il problema (Mayer, 1992). Secondo questa definizione, il processo di problem solving ha quattro caratteristiche principali (Mayer, 2014; Mayer & Wittrock, 2004).

  21. La teoria tripolare di Sternberg: triarchia del pensiero e sviluppo

    La teoria della triarchia del pensiero (così chiamata perché si basa su suddivisioni triadiche) afferma anche che l'intelligenza si esprime attraverso tre componenti fondamentali: analitica ...

  22. Teoria computazionale della mente « SIFA

    6.4 Teorie meccanicistiche. La natura meccanicistica della computazione è un tema che torna spesso in logica, filosofica, e nelle scienze cognitive. Gualtiero Piccinini (2007, 2012, 2015) e Marcin Milkowski (2013) sviluppano questo argomento in una teoria meccanicistica dei sistemi computazionali.

  23. Problema di Fisica sul condensatore

    Problema di Fisica sul condensatore. 0. Considera la situazione del Problem solving 6 della teoria, in cm un oggetto e appeso a un filo tra le armature di un condensatore a facce piane parallele, come mostrato in figura. Supponi che l'intensità del campo elettrico tra le armature cambi, e che sia attaccato alla cordicella un oggetto con una ...